Albert Camus fu uno dei massimi filosofi e scrittori del ‘900, difatti spiccò in quanto maître à penser dell’esistenzialismo ateo francese insieme a intellettuali del calibro di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Lo scrittore algerino fu anche un attivista impegnato nella guerra d’indipendenza in Algeria ma anche nella lotta anarchica al comunismo marxista e al capitalismo occidentale. Nel 1957 all’apice della sua produzione letteraria venne insignito del premio Nobel per la letteratura, morì poi in un incidente stradale nel 1960. Le opere di Albert Camus, nonostante la sua breve vita, furono un testamento dell’angoscia umana nel deserto dell’assurdo.
Albert Camus pubblicò nel 1942 per la casa editrice francese Gallimard il suo primo romanzo Lo straniero (titolo originale: L’Étranger) che divenne un classico della letteratura contemporanea e, al contempo, rese l’autore noto al pubblico. L’assurdo è il tema centrale della narrazione in quanto parte costituente della vita dell’uomo, non tanto per scelta individuale o per sua natura, ma come risultante di forze che introducono una matrice irrazionale nella vita. Ragion per cui assurda è l’epopea di Meursault protagonista del romanzo e prototipo predittivo dell’individuo che sarebbe sorto dopo la mattanza della Seconda Guerra Mondiale. In tal senso l’opera del pensatore algerino è una profetica proiezione del disancoramento atomizzante nella realtà del tecnicismo e della decadenza.
Dunque, nella labilità tra realtà e finzione, tra oggettivo e soggettivo, tra vita e morte, la condizione esistenziale del soggetto umano è evidente: si esiste da stranieri nel mondo.
«Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? Tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello? – Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello. – I tuoi amici? – Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino a oggi sconosciuto. – La patria? – Non so sotto quale latitudine si trovi. – La bellezza? – L’amerei volentieri, ma dea e immortale. – L’oro? – Lo odio come voi odiate Dio. – Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero? – Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!» (C. Baudelaire, Lo straniero).
Lo straniero: la trama
Il romanzo di Albert Camus è suddiviso in due parti e narra le vicende d’un uomo francese che vive ad Algeri di nome Meursault, ossia un giovane e modesto impiegato apatico e totalmente indifferente alla vita. La sua atonia si palesa sin da subito, infatti dopo aver ricevuto un telegramma dall’ospizio di Marengo che gli annuncia la morte dell’anziana madre, reagisce impassibile.
«Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so».
Dopo essersi perso in dettagli formali e burocratici parte per recarsi al cospetto dalla salma, rifiutandosi finanche di visionarla. Pertanto, affronta la morte della madre con la solita inerzia fisica e psicologica: non versa per lei nemmeno una lacrima. Vive il dramma del momento come se fosse un sogno intervallato solo dal caldo, dalla fame e dalla stanchezza; difatti dopo un estenuante corteo funebre, svoltosi sotto il rovente e conturbante sole nordafricano, la madre viene seppellita mentre lui preserva la propria proverbiale indifferenza. Al termine dell’incomodo, di ritorno ad Algeri, si reca a fare il bagno al porto della città e lì rincontra Maria Cardona, una sua ex collega di ufficio con la quale riallaccia i rapporti che si tramutano in intimi. I giorni successivi trascorrono in una rapsodia di eventi senza senso e nulla pare essere cambiato. Infatti Meursault esprime totale indifferenza quando Maria gli propone di sposarlo, giacché per lei prova solo una sorta d’attrazione fisica; lui è assolutamente privo di sentimenti. Nella sua anestesia emotiva nessun coinvolgimento emozionale può travolgerlo.
Una domenica qualunque Meursault e il vicino di casa Raymond Santiès – pur d’infrangere la monotonia della solitudine – passeggiano lungo la spiaggia e incontrano due arabi che da tempo seguono Raymond per vendicare il comportamento molesto di quest’ultimo avuto a nocumento della sorella di uno dei due. Ne nasce una violenta colluttazione al termine della quale viene ferito l’amico del protagonista. Successivamente entrambi ritornano sulla medesima spiaggia dove sono situati ancora i due arabi, mentre l’afa diventa sempre più soffocante. Questa volta il giovane impiegato francese possiede un revolver prestatogli da Raymond, allorché uno degli arabi dopo averlo riconosciuto estrae il coltello e viene rapidamente sparato. Dunque, Meursault in uno stato di semi incoscienza e accecato dalla luce solare uccide uno dei due con un colpo netto, ciononostante infligge altri quattro colpi di pistola sul corpo esanime. Persino durante l’omicidio la sua mano sembra essere estranea alla mente e al cuore.
Nel romanzo di Albert Camus a questo drammatico e tragico fatto seguono l’arresto, l’incarcerazione e il processo di Meursault. In prigione viene ridotto ai minimi termini; indifferente a tutto eccetto che al sole cocente e agli impulsi sessuali che lo riavvicinano a Maria, trascorre il tempo tra i ricordi, l’ozio e la noia. Non sembra mostrare alcun rimpianto, né durante l’interrogatorio né durante la detenzione. Durante il processo, in cui si sente spettatore e non parte attiva, testimoniano il direttore della casa di riposo della madre, il portinaio e altri tèste. Il presidente della corte lo interroga sulla vicenda della madre e sull’omicidio dell’arabo. Intanto, continua a mostrarsi estraneo sia alla società sia a se stesso. In virtù di ciò la corte commina così la sua condanna a morte da somministrare tramite ghigliottina.
Dopo la sentenza, in cella si rifiuta di vedere per ben tre volte il cappellano identificato come simbolo d’una vita ultraterrena in cui non crede. Infine lo riceve e in tale frangente si verifica la sua massima manifestazione di vitalità attraverso la veemente reazione al discorso del cappellano che lo invita a redimersi.
«Avevo vissuto in un modo e avrei potuto vivere in un altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto quella cosa ma avevo fatto quest’altra. E dopo? [..] Che m’importava della morte degli altri, dell’amore di una madre, che m’importava del suo Dio, delle vite che si scelgono, dei destini che si eleggono, se poi era un unico destino a eleggere me e con me miliardi di privilegiati che, come lui, si dicevano miei fratelli? Capiva, lo capiva adesso? Tutti erano privilegiati. C’erano solo privilegiati. Un giorno anche gli altri sarebbero stati condannati. Anche lui sarebbe stato condannato. Che importava se, accusato di omicidio, fosse stato giustiziato per non aver pianto al funerale della madre?»
Al dileguarsi del vicario di Dio, Meursault avverte per la prima volta nell’accettazione del suo destino assurdo una sorta di sensazione di pace. Dopo aver sfogato la propria rabbia viscerale inizia a vivere una contraddizione solo apparente, perché si rende conto che soltanto un uomo realmente vivo può morire. A questo punto l’angoscia esistenziale si dipana tra quel suo sottile senso fatale della morte e quel suo impersonale amore per la vita. Qui nell’opera di Albert Camus subentra un sublime momento lirico di calma e di pace: Meursault si sente purificato da ogni male e vuoto di ogni speranza.
Lo straniero pensa con amorevole dolcezza a sua madre e con ciò scopre e si concilia con la tenera indifferenza del mondo, e nel riconoscere quest’ultimo così simile a sé diviene felice, irreversibilmente.
Albert Camus, narratore dell’alienazione e del supplizio
Albert Camus attraverso un linguaggio semplice e scorrevole conduce le lettrici e i lettori a immedesimarsi con le vicissitudini del giovane francese, mettendone in evidenza il vuoto emotivo, il clima apatico e lo smarrimento. Il nome stesso del protagonista è emblematico: Meur rimanda alla radice di mort, morte, e sault è omofono di saut, salto; quindi significherebbe salto nella morte.
Difatti la vita alienata di Meursault appare come una sequela di sfortunate coincidenze, di giochi negativi del destino, ossia l’essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, sino al parossismo: una condanna a morte. In lui, così distrattamente vitale e funereo e così spregiudicatamente attonito, non filtra alcuna volontà o ideazione tra la realtà e il proprio mondo emotivo. Vive automaticamente, si trascina passivamente nelle contingenze, non ha guizzi e nella subordinazione e nella nevrosi si propaga la sua fioca vita. Dunque, ogni azione è dettata dal peso dello smarrimento, perciò tutto accade fatalmente privo di controllo.
L’essere straniero davanti alla sua stessa vita e a quello che compie è una situazione esistenziale di anonimato. Non a caso la frase più frequente nel romanzo è proprio: ça m’était égal – per me era lo stesso. Partire o restare, sposare Maria o non sposarla, amarla o non amarla, essere amico di Raymond o no, andare a Parigi o restare ad Algeri, e via discorrendo. Pertanto, tutto è identico tra l’essere e il non essere.
Del resto il titolo stesso del romanzo indica propriamente uno stato di alienazione e la condizione umana del protagonista rimanda in parte ai versi di Ungaretti: «Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia». Meursault vive questo supplizio ungarettiano che cova dentro sé e che esplode con fragore solo alla fine.
L’Étranger è il dramma dell’indifferenza in cui il protagonista si rende conto dell’assurdità dell’esistenza: l’umano, ch’è razionalmente proiettato verso certezze, vive una realtà senza fondamenta. Per tale ragione decide di estraniarsi e di non opporsi, quindi, all’esistenza stessa – come Sisifo – accettando incondizionatamente il proprio destino senza sconforto. Tutta questa insensibilità potrebbe apparire angosciante e atroce se non fosse per il fatto che poiché quanto accade in vita perdura senza spiegazioni e soluzioni, restituisce al soggetto quell’essenzialità – rebus sic stantibus – per giungere a una consapevolezza reale di sé. La rivelazione dell’essere avviene all’unisono con la prefigurazione emotiva della sua ineluttabile anti-logicità e fine. L’uomo deve essere quindi cosciente del naufragio totale della vita.
L’eroe assurdo e senza tempo camusiano è l’innocente vittima sacrificale d’una volontà superiore di cui non si conoscono né l’origine né lo scopo, il cui epilogo è rappresentato solo dalla morte, come fuga da un’esistenza che non ammette compromessi tra l’uomo e il mondo.
In conclusione permane esclusivamente una verità negativa: nessuna conquista di sé e del mondo sarà mai possibile.
Gianmario Sabini
Grazie