Nahalin è un villaggio palestinese a sud di Betlemme, immerso nelle colline della Palestina e circondato da sei insediamenti israeliani. È da tanti giorni che ne sentiamo parlare e finalmente riusciamo ad andarci con Daher, la nostra guida palestinese impegnato nel progetto della Tent of Nations. Lo scopo non è tanto visitare il villaggio, quanto conoscere meglio un centro per le donne che si chiama “Le ragazze della campagna”.

A bordo della vecchia Volkswagen con la bandiera della Palestina sulla targa, percorriamo le strade di una Nahalin semi-deserta dopo pranzo. Qualche bambino cammina tra i palazzi e ci saluta; qualcun altro porta la pita – il pane palestinese – a casa in grandi buste di plastica. In poco tempo arriviamo al centro per le donne, che è coloratissimo fin dal suo ingresso. All’interno fotografie, storie, poesie, tutto ciò che può stimolare il talento nascosto di ogni donna e la fiducia in sé stesse. In una sala a parte ci sono anche alcuni computer, che vengono utilizzati in alcuni corsi. I segni delle donne che vivono il centro sono ovunque. Si vedono. Si percepiscono.

In basso a sinistra il villaggio di Nahalin, in alto a destra l’insediamento israeliano Betar Illit di circa 40.000 abitanti.

«Quando mio marito mi ha proposto di aprire un centro per le donne a Nahalin, io gli ho detto che era pazzo», ci spiega Jihan, che è la donna che gestisce con impegno quotidiano il centro “Le ragazze della campagna” da ormai quindici anni. «Poi però abbiamo iniziato, con fatica, e adesso il centro è ancora qui, frequentato da tantissime donne e punto di riferimento del villaggio». Il centro, infatti, nasce con l’idea di dare un’opportunità alle numerose donne che a Nahalin si sposano giovanissime e rimangono intrappolate nel matrimonio, senza avere davvero la possibilità di scegliere cosa fare di sé stesse e del proprio futuro. Nahalin è un villaggio molto conservatore e non è raro che padri, mariti o fratelli decidano del futuro delle rispettive figlie, mogli e sorelle.

Alcuni dei manufatti delle donne del centro “Ragazze della campagna”.

«Per molte donne anche venire al centro spesso era un problema, perché i loro familiari pensavano chissà cosa facessimo, quando in realtà ciò che facciamo è semplicemente dare un’alternativa: organizziamo corsi di computer, di lingua inglese, di educazione ambientale, di riciclo. Così queste donne, anche se poi dovranno tornare alle loro case, avranno comunque l’opportunità di realizzare una parte di sé stesse», racconta ancora Jihan. «Alcune di loro si sono appassionate, ad esempio, al riutilizzo creativo della plastica, con cui creano borse, accessori e oggetti, e si sono addirittura impegnate per vendere i loro prodotti tramite internet».

Eppure non è facile. Ci sono donne che sono riuscite a venire per un po’ di tempo e poi hanno abbandonato, altre che seguono a intermittenza. Alcune di loro non si sono mai avvicinate al centro e c’è fra le stesse donne chi non condivide la politica di Jihan, che è cristiana e per questo non indossa l’hijab. «Spesso per strada incontro una donna che mi dice che devo coprirmi la testa: ogni volta che sono alla fermata dell’autobus cerca di mettermi un velo con la forza. Oppure molte per strada mi chiedono “Di che religione sei?” e io rispondo “Sono palestinese come voi”. Perché devono usare la religione come pretesto per creare distanze?».

Murales all’ingresso del centro “Le ragazze della campagna”.

Al centro non soltanto si acquisiscono nuove competenze, ma anche fiducia in sé stesse, forza, motivazione. È anche un luogo per riflettere insieme sui propri sogni e su ciò che si vorrebbe essere, e le foto e le scritte sulle pareti ne sono testimoni.

In molti casi sono destinati a rimanere sogni, eppure il centro è comunque uno strumento importante per le donne di Nahalin.

A questo proposito, Jihan ci racconta la storia di una donna: «Questa ragazza aveva appena finito i quattro anni di università e una volta tornata a Nahalin aveva trovato lavoro. Il padre, però, a quel punto decide che lei non può lavorare in un ufficio con colleghi maschi. Lei si dispera, non esce da camera sua per un mese, finché non riusciamo piano piano a parlarle. E adesso, anche se non può lavorare, frequenta il centro e segue le nostre attività». Fatti come questi non sono rari, ma la cosa positiva è che comunque il centro continua ad essere vivo e frequentato.
Mentre leggo i desideri di queste donne appesi alle pareti (qualcuna vuole viaggiare, qualcuna studiare, qualcun’altra essere una casalinga), penso a quante, fra di loro, davvero avranno mai l’opportunità di autodeterminarsi. E decidere chi essere, cosa fare e perché. E soprattutto quante delle loro figlie avranno un futuro diverso dal loro.

Parlare alle donne, infatti, significa anche parlare alle nuove generazioni e questo è un punto che Jihan ci tiene a sottolineare: «Attraverso le donne vogliamo arrivare ai più piccoli. Vogliamo che attraverso le loro madri imparino l’inglese, l’utilizzo del computer e soprattutto il rispetto per l’ambiente, che è una cosa che qui manca».

Non è raro, infatti, vedere buste di plastica e spazzatura nelle strade appena fuori da Nahalin. «I palestinesi dicono sempre che amano la loro terra, ma poi non si rendono conto che sono i primi a maltrattarla; noi vogliamo scardinare questo meccanismo, vogliamo che anche il rispetto per la natura diventi un elemento fondamentale della crescita di ogni nuovo giovane palestinese».

Daher è cognato di Jihan e collabora al mantenimento del centro.

A questo punto Daher ci guida fuori dall’edificio. Il nostro giro è finito e una volta fuori proviamo a parlare con qualche ragazzina per strada. Non parliamo la stessa lingua, ma il sorriso sul suo volto ci dà il benvenuto. Siamo una rarità, una sorta di attrazione turistica per loro, ma forse neanche troppo inusuali: molte volontarie internazionali, infatti, vengono al centro ad aiutare, proporre corsi o più semplicemente conoscere.

Mentre ce ne andiamo da Nahalin, penso ad un altro racconto di Jihan e a quanta verità si nasconde nelle sue parole: «Un giorno è venuto un uomo al centro, un parente di una ragazza, perché voleva sapere cosa facevamo e voleva partecipare anche lui. Io gli ho detto che non poteva seguire i corsi e quando lui mi ha chiesto perché, io gli ho risposto che quello era il nostro spazio, uno spazio solo per le donne».

Elisabetta Elia
@cercoqualcosa 

Della Palestina abbiamo raccontato anche di Hebron e della Tent of Nations.

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