«We refuse to be enemies» è la scritta che ti accoglie quando varchi il cancello della Tent of Nations. Un luogo di pace e di incontro fra culture ma prima ancora la fattoria di una famiglia palestinese a 9 km a sud di Betlemme, in Cisgiordania. È qui che dal 1916 le generazioni della famiglia Nassar sono cresciute e si sono avvicendate, coltivando e vivendo dei proventi della terra. Ed è sempre qui che dal 1991 in poi questa famiglia ha dovuto combattere attivamente contro l’occupazione israeliana, che tenta in ogni modo di accaparrarsi i suoi 42 ettari di terreno e che ogni giorno sgombera nuovi villaggi palestinesi.
«Stiamo combattendo una battaglia legale da 27 anni, quando il governo israeliano ha dichiarato che la terra non ci apparteneva e che stavamo coltivando sul suolo dello Stato», spiega Daoud Nassar, uno dei proprietari della fattoria e principale ideatore della Tent of Nations.
Palestinese di fede cristiana, sognatore con i piedi nella sua terra, Daoud è solo uno dei tanti fratelli e tante sorelle della famiglia Nassar. È lui, però, a tenere saldi i legami con la comunità internazionale, con i volontari e con la comunità palestinese locale. Tutti elementi fondamentali per la battaglia che la famiglia Nassar sta ancora portando avanti.
Nel 2002, infatti, dopo anni di lotta con i tribunali militari, i Nassar si rivolgono alla Corte suprema israeliana e riescono ad ottenere l’autorizzazione a registrare nuovamente la terra come proprietà privata della famiglia. Una grande vittoria di cui però la corte militare israeliana non tiene conto, continuando a considerare la fattoria come suolo pubblico e a denunciare ogni possibile uso della terra da parte dei Nassar.
«Abbiamo 22 ordini di demolizione per ogni singola cosa che abbiamo costruito qui – accampamenti, presidi per i volontari, magazzini – e ingiunzioni che ci dicono che non possiamo coltivare; abbiamo ancora numerosi casi legali aperti presso la corte militare; la strada che ci porta alla via principale è sbarrata da un blocco stradale che vuole isolarci; allo stesso modo non abbiamo accesso all’acqua corrente o all’energia elettrica.»
Nonostante tutto questo, Daoud e la sua famiglia sono riusciti a costruire un luogo che della non-violenza e dell’incontro fra culture ha fatto il suo principio cardine, declinando il tutto in una chiave ambientale di amore e rispetto verso la terra.
Un luogo che nonostante i blocchi, i soldati e gli insediamenti è tutt’altro che isolato. Ogni anno, infatti, centinaia di volontari internazionali si riversano nella Tent of Nations e contribuiscono alla sua resistenza.
«La presenza dei volontari internazionali qui è fondamentale, prima di tutto perché costituiscono un deterrente contro l’azione dei militari israeliani e poi perché ci danno un aiuto concreto nella coltivazione. Infatti, se coltiviamo meno del 70% del terreno, lo Stato israeliano può reclamarlo come suolo pubblico». Daoud ci mostra i campi coltivati della sua fattoria: viti, fichi, mandorli e ulivi sono i protagonisti di questa terra calda e ventilata, ma sono sparsi, disposti volutamente a macchie lungo la collina, nel tentativo di non far comprendere agli elicotteri militari israeliani la reale estensione delle coltivazioni.
Dalle sue parole traspare una scelta ben precisa, una direzione segnata senza l’ombra di alcun dubbio: «Ci rifiutiamo di essere nemici, ma allo stesso tempo ci rifiutiamo di rispondere alla violenza con altra violenza o di rifugiarci in una mentalità vittimistica soltanto perché i problemi persistono».
Nel 2014, ad esempio, un intero frutteto di alberi di albicocche è stato distrutto dai militari israeliani, mentre al tribunale militare si stava ancora discutendo della proprietà o meno della famiglia Nassar di quella porzione di terreno. «Per noi non ha senso dire di essere disposti a morire per la propria terra. Piuttosto, siamo pronti a vivere per sostenerla».
Ed è grazie a questa grande forza interiore che la Tent of Nations diventa un polo attrattore di energie positive, incubatore di progetti e speranze, proprio lì nel paese martoriato dall’occupazione e dalla disperazione. «Se è chiaro ciò che non vogliamo essere, è altrettanto chiaro ciò che vogliamo fare: proteggere la terra, aprirla ad altre persone, essere l’esempio e convertire l’energia negativa in energia positiva. Loro ci tolgono l’acqua corrente e noi la raccogliamo durante le piogge invernali e la purifichiamo; ci tolgono l’energia elettrica e noi usiamo i pannelli solari; loro minacciano chiusure e noi ci apriamo al mondo».
Ci sono tanti sogni e visioni per il futuro, che però non sono così lontani. In campo, ad esempio, c’è l’idea di costruire una scuola su un container con delle ruote: «Loro ci dicono che qui non possiamo costruire e allora noi abbiamo deciso di creare una scuola su delle ruote. E lo faremo proprio di fronte alla scuola di Neve Daniel», che è l’insediamento israeliano più vicino alla fattoria e che ha costruito una scuola vicinissima alla proprietà Nassar. «Quando i bambini israeliani sentiranno lo schiamazzo degli altri bambini dalla nostra fattoria, capiranno che non sono soli, che c’è qualcun altro oltre loro che vive su queste terre».
Il desiderio di essere esempio e conoscenza per le nuove generazioni di palestinesi è un altro degli obiettivi da raggiungere: «Vogliamo insegnare ai giovani palestinesi l’amore per la terra e quindi impegnarci in corsi di educazione ambientale, perché se vogliamo avere questa terra dobbiamo essere i primi a rispettarla».
Infatti non soltanto i volontari si recano ogni anno nella fattoria, ma anche bambini provenienti da villaggi o campi profughi della Cisgiordania o della striscia di Gaza: due settimane durante l’estate sono dedicate all’organizzazione di un campo estivo per accoglierli, educarli e soprattutto infondere la speranza di una vita nuova, diversa.
La collina su cui si adagiano le strutture della Tent of Nations sembra l’ultimo avamposto di resistenza contro l’occupazione israeliana in questa parte della Cisgiordania: sono sei, infatti, gli insediamenti che la circondano e qui i rombi degli elicotteri militari si alternano ai canti dei muezzin di Nahalin, il villaggio palestinese più vicino.
E poi, su questa collina, incombe un’altra grande minaccia: il muro. Che è ciò che spaventa di più. Se davvero la costruzione proseguirà, dividerà questa collina da Betlemme, il villaggio di Nahalin da altre comunità locali. E anche andare a comprare una cisterna per l’acqua diventerà un problema da risolvere giorno per giorno.
È anche per questo che Daoud, Daher, Amal e i suoi fratelli stanno concentrando gran parte delle loro energie nella lotta per l’autosufficienza. Daoud però non sembra spaventato quando ce lo racconta. Piuttosto, sembra sicuro di ciò che avverrà, nonostante tutto. E anche il suo ultimo saluto è un inno alla natura: «Quello è il Mar Mediterraneo», indica. È una sottile striscia arancione illuminata dai raggi del tramonto. E, da questi 950 metri di altezza, è bellissimo.
Elisabetta Elia