Immaginate una savana al posto della foresta amazzonica? Sta già accadendo
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E’ palese che la crisi climatica, e gli eventi che ruotano attorno ad essa, pur essendo un fenomeno di portata globale, non ci dà l’impressione di essere qualcosa di cui ne facciamo realmente parte. La progressiva desertificazione della foresta amazzonica, ad esempio, non è una faccenda che interessa solo i brasiliani o il loro principale esponente politico Jair Bolsonaro. Quando udiamo delle migliaia di ettari di foresta che ogni settimana vengono abbattuti attraverso le note pratiche incendiarie, protestiamo, ci irritiamo o firmiamo petizioni, ma la tendenza è quella di rimanere inermi davanti un fenomeno che accade dall’altra parte del globo.

Eppure l’Amazzonia è indubbiamente uno dei luoghi di cui si sente più parlare sin da piccoli: la scuola, la famiglia, i media, sono soltanto alcuni dei contesti nei quali nasce l’esigenza di trasmettere alle nuove generazioni l’importanza che rivestono le foreste pluviali, in particolare quella che viene comunemente definita come il polmone della Terra. Tuttavia, è raro che la sensibilizzazione avvenga ai fini di una tutela concreta. In primis bisognerebbe ammonire che ciò che sembra così lontano dalla nostra vista, non lo è affatto dalle nostre coscienze. Nell’ultimo cerchio (ma non per importanza) della catena delle responsabilità ci siamo noi, che con le nostre scelte, in particolare quelle alimentari, possiamo influire su ogni singola mangrovia bruciata, o sul destino della preziosa biodiversità che rischia l’estinzione. In altri termini, se immaginassimo di appartenere alla comunità indigena dei Karaja del Mato Grosso, come ci sentiremmo se la nostra vita dipendesse dalla richiesta di carne degli altri continenti? 

Da foresta amazzonica a savana amazzonica

Attorno alla vicenda del disboscamento della foresta amazzonica e della sua conseguente trasformazione in savana, ruotano almeno due enormi criticità. In una sua intervista rilasciata al Guardian, l’ecologista Arie Staal, evidenzia che il depauperamento delle foreste pluviali incide sul “riciclaggio dell’umidità atmosferica”, con importanti conseguenze sulla regolazione del clima globale. I livelli di evaporazione che le foreste sono in grado di produrre contribuiscono ad uno strato atmosferico più umido di quanto sarebbe nel caso di una condizione di aridità. Gli effetti si ripercuoterebbero anche sul clima dei Paesi prossimi al nostro polmone verde, in particolare in Paraguay, Brasile, Argentina centro-orientale e Uruguay.

Gli alberi, attraverso la loro capacità di trasformare il vapore acqueo delle foglie in pioggia, azzerano praticamente del tutto la possibilità di autorigenerarsi. Come sottolineato dallo stesso ricercatore Staal, esperto nello studio della stabilità degli ecosistemi terrestri, la previsione di un evento di desertificazione dell’Amazzonia, così come delle altre foreste pluviali del pianeta, era già nell’ordine delle cose, ma il dato che suscita scalpore negli studiosi è l’incontrollata accelerazione di questo processo

Anche numerosi studi, tra cui un dossier dello Stockholm Resilience Center, sottolineano che il meccanismo di “savanizzazione” della foresta amazzonica, si appresta a diventare irreversibile se i tassi di deforestazione continuano ad infrangere nuovi record: con un incremento del 60%, il 2020 sta spazzando via il record assoluto di incendi dell’anno precedente. 

La seconda criticità è invece connessa alla funzione degli alberi di assorbire CO2. Attualmente la capacità di fotosintesi permette alla vegetazione terrestre di immagazzinare “solo” un quarto dei gas serra prodotti dall’attività umana: in modo analogo è paragonabile ad una vasca da bagno che si riempie di acqua con lo scarico ostruito. Inoltre gli alberi, essendo fatti al 50% di carbonio, quando bruciano rilasciano i loro depositi di CO2. Quindi, bruciare foreste sarebbe come aprire ulteriormente il rubinetto in presenza di uno scarico ostruito. 

Il problema e la soluzione

Quanta foresta abbiamo mangiato, usato o indossato oggi?” recitava sarcastico un tweet di WWF Italia. Ebbene faremmo fatica a dissentire se guardassimo alcune stime sul consumo di prodotti di provenienza tropicale impiegati nelle filiere agro-alimentari e nell’industria del pellame. Di fatti circa l’80% della deforestazione delle aree tropicali serve a ottenere terreno utile per la produzione di foraggio o il pascolo di bestiame. Soltanto la virtuosissima Unione Europea, promotrice indiscussa dei principali accordi sul clima, acquista ben il 37% delle colture e dei prodotti di origine animale associati al disboscamento, di cui il 60% dal Brasile e il 25% dall’Indonesia. Per quanto riguarda il comparto conciario l’Italia si attesterebbe al secondo posto dietro la Cina, tra i principali importatori di pellame brasiliano. 

Indubbiamente, la complessa dinamica dello sfruttamento delle aree tropicali, in particolare della foresta amazzonica, è interessata da fattori interni ed esterni. Il capitalismo, l’allevamento industriale, il comparto dei combustibili fossili sono sistemi potenti, difficili da smantellare. Viceversa, il nostro modo di agire potrebbe alimentare problemi sistemici ma potrebbe anche cambiarli. Se ai fattori esterni contrapponessimo quello interno del libero arbitrio, la nostra capacità di incidere attuando scelte coscienziose, allora potremmo essere in grado quantomeno di generare una crisi degli altri. A tal proposito, lo scrittore Jonathan Safran Foer nel suo libro Possiamo salvare il mondo prima di cena, mediante una realistica quanto provocatoria similitudine, afferma che «Nessun singolo automobilista sarebbe in grado di provocare un ingorgo. Ma un ingorgo non può verificarsi senza i singoli automobilisti. Se siamo bloccati nel traffico è perché il traffico siamo noi».

Gianmarco Santo

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