Capitalismo contro Clima: chi sono i veri responsabili della crisi climatica?
Capitalismo contro Clima (edam.org.tr)

La Terra brucia e l’umanità ha, per ora, solo due possibilità: salvarla o accettare una futura estinzione. Quindi o sradichiamo il capitalismo o distruggiamo la Terra, o ingrassa il capitalismo o prospera la Terra. La nostra biosfera è un sistema finito nel quale le risorse del pianeta sono esauribili. Attualmente la rigenerazione di tali risorse risulta essere incompatibile con il folle ritmo consumistico umano. Con i beni naturali si sta esaurendo anche il cosiddetto carbon budget ovvero il bilancio che indica la quantità di CO2 che possiamo ancora emettere in atmosfera senza sforare la soglia dei 2°C di aumento della temperatura globale. L’essere umano quindi, per non devastare il proprio habitat né mutare il clima in maniera irrimediabile, non dovrebbe consumare più di quanto il pianeta sia in grado di produrre: invece ad oggi servirebbero 1,7 pianeti per soddisfare la nostra fame di consumo.

Tale drammatico stato di cose non rappresenta un effetto ineluttabile causato dall’incremento demografico della popolazione mondiale, ma è il risultato del modello di sviluppo capitalistico che pone come proprio postulato indiscutibile la crescita perenne dei consumi e di conseguenza della produzione di merci, ed è precisamente ciò a renderlo nemico dell’ecosistema e della biodiversità e matrice dell’attuale crisi ecologica. L’equazione che lega crescita dei consumi con riduzione del potere d’acquisto delle classi subalterne consiste nel sovraprodurre merci di scarsissima qualità in modo da poterne produrre e vendere in quantità sempre maggiori, con effetti devastanti sull’equilibrio ambientale dovuti alla crescita degli inquinanti, dal trasporto e dall’aumento dei rifiuti. Tale modus operandi è di per sé irriguardoso del consumo complessivo di materia, di energia e dei limiti fisici (carrying capacity) del pianeta.

Il settore trasporti rappresenta infatti oltre il 23% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. L’industria agroalimentare, attraverso monoculture intensive e allevamenti intensivi, oltre a essere la causa principale della deforestazione, produce oltre il 25% globale di gas serra. La logica del capitalismo si fonda sull’assunto che ci sia sempre un «altrove» dove depositare gli scarti, ma il nostro è un mondo in cui non c’è nessun «altrove» e le conseguenze sono disastrose. Il clima è in serio pericolo. Attualmente la Terra è solo un deposito di risorse da sfruttare e di rifiuti da smaltire.

Capitalismo e riscaldamento globale

Dagli anni ottanta ad oggi le emissioni di CO2 sono aumentate del 40% e la Terra s’è riscaldata di circa 1°C. Inoltre il 40% degli insetti è sparito a causa del riscaldamento globale e il 60% degli animali negli ultimi cinquant’anni è scomparso. L’Accordo di Parigi del 2015 con 196 Stati firmatari ha posto obiettivi ambiziosissimi: incremento massimo di 2°C nel 2100, con esplicita volontà di abbassare l’asticella a 1,5°C. Quindi i Paesi industrializzati dovrebbero ridurre le emissioni di CO2 del 10% circa all’anno. L’accordo però non è davvero legalmente vincolante, dal momento che non prevede procedure di controllo né meccanismi di sanzione, infatti l’insieme dei contributi eco-sostenibili per il clima dei singoli Stati non è assolutamente sufficiente – business as usual – a raggiungere nemmeno l’obiettivo minimo dei 2°C. L’inadeguatezza di tale accordo sta nel aver riproposto i meccanismi flessibili ideati attraverso il Protocollo di Kyoto, basati sull’assunto che nel mercato stia la salvezza del pianeta, come architrave economico della politica climatica. Si è cioè rilanciata la mercatizzazione della lotta al riscaldamento globale. Le élite globali fanno propri i dettami della cosiddetta «green economy», secondo cui il limite ambientale non deve essere percepito come vincolo allo sviluppo, bensì come inedita opportunità di business, motore di crescita, fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica. Questa crescita è fondata da circa due secoli sulle energie fossili, che concentrano più investimenti di qualsiasi altro settore della produzione. Le sole riserve di petrolio rappresentano più di 50 mila miliardi di dollari. La crescita è l’espressione razionale delle esigenze della riproduzione capitalista. «Crescere o morire» è la legge della sopravvivenza nella giungla del mercato competitivo del capitalismo.

Nel suo ultimo libro “Il Mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima“, Naomi Klein scrive: «Semplicemente non c’è modo di far quadrare una fede che spregia l’azione collettiva e venera totale libertà del mercato con un problema che richiede invece un’azione collettiva a livelli mai visti e una spettacolare limitazione delle forze di mercato che hanno creato e aggravato la crisi».

Il riscaldamento globale in atto è il massimo esempio di fallimento del mercato che abbiamo mai visto. La concentrazione di CO2 nell’atmosfera supera le 400 ppm (parti per milione): non raggiungeva un simile valore dal Pleistocene, tre milioni di anni fa, quando la temperatura era di 3° o 4°C più elevata di oggi; l’Artico non aveva ghiaccio e il livello del mare era di 40 metri più alto che oggi. Il clima muta imprevedibilmente, se non lo controlliamo il cambiamento sarà devastante. Siamo verso un punto di non ritorno!

L’1% controlla il 99% delle ricchezze globali e concentra nelle proprie mani sia il potere economico che quello politico: ecco la ragione del clamoroso fallimento delle conferenze internazionali sulla crisi climatica, ecco il trionfo del capitalismo. L’azione etica del singolo attraverso il riciclaggio, l’utilizzo di lampadine a basso consumo, diete alimentari a basso impatto ambientale e riduzione personale dei consumi non è, e non può essere, una risposta adeguata alla crisi del clima. A una crisi collettiva c’è bisogno d’una risposta collettiva, ed è necessario in primis individuare i veri responsabili della catastrofe perché se tutti sono colpevoli allora non si può accusare nessuno, e invece qualcuno va accusato.

Chi sono i veri responsabili della crisi climatica?

Secondo un rapporto del 2017 del Carbon Disclosure Project (CDP), dal 1988 a oggi sono solo 100 aziende a essere responsabili del 71% delle emissioni industriali globali di gas serra nell’atmosfera. Le multinazionali private maggiormente responsabili sono: BP, Chevron, ConocoPhillips, Peabody, Lukoil, Total e Shell, ma ci sono anche 31 colossi di Stato tra cui la giapponese JXTG Holdings, la messicana Pemex, l’indiana Coal, Kuwait Petroleum, Petroleos de Venezuela, la russa Rosneft e le italiane Eni e Italcementi. Nel solo 2018, il settore petrolifero e del gas ha registrato ricavi per 2 trilioni di dollari.

I principali colpevoli della crisi climatica sono dunque:

ExxonMobil Corp (1,98% d’emissioni annue di CO2), con a capo D. Woods, grande sostenitore dell’Accordo di Parigi, è la più grande compagnia petrolifera quotata in borsa. Tuttavia, un recente rapporto di InfluenceMap ha affermato che la ExxonMobil ha speso 41 milioni di dollari all’anno per bloccare le politiche di lotta alla crisi climatica.

National Iranian Oil Co (2,28% d’emissioni annue di CO2), con a capo M. Karbasian, è la seconda compagnia petrolifera statale più grande al mondo ed è in grado di produrre più di 4 milioni di barili di petrolio greggio e oltre 750 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno.

Gazprom OAO (3,91% d’emissioni annue di CO2), con a capo A. Miller, vice ministro dell’energia, è un’azienda controllata dal Cremlino ed è la più importante società russa di gas naturale quotata in borsa. Nel 2013 è stata la prima azienda a pompare petrolio dalla piattaforma artica presso il campo di Prirazlomnoye, che si dice contenga più di 70 milioni di tonnellate di petrolio.

Saudi Arabian Oil Company (4,50% d’emissioni annue di CO2), con a capo A. H. Nasser, è l’azienda di proprietà statale più redditizia al mondo ed è la maggiore produttrice di gas serra nel settore dei combustibili fossili.

China Coal Energy (14,32% d’emissioni annue di CO2), con a capo W. An, è il maggiore produttore mondiale di carbone ed è anche il maggiore emettitore di gas serra. L’inquinamento atmosferico in Cina causa ogni anno 1,6 milioni di morti premature. Si prevede che la capacità di produzione di carbone continuerà a crescere fino al suo picco massimo nel 2030.

In base a dati risalenti al 2017 (Global Carbon Atlas) lo Stato che inquina di più in assoluto è la Cina, che si attesta a 9,84 mld di tonnellate di CO2, a seguire gli USA con 5,3 mld di tonnellate di CO2, e al terzo posto c’è l’India con 2,4 mld di tonnellate di CO2. Il cambiamento non avverrà attraverso costoro. C’è ancora tempo, seppur poco, per evitare un surriscaldamento catastrofico, ma non nel quadro delle regole attuali del capitalismo. Il capitalismo fossile/verde ci condurrà verso un eco-suicidio.

Ecosocialismo o estinzione

L’economista neoliberale ortodosso M. Friedman disse: «le corporations sono in affari per fare denaro, non per salvare il mondo»; quindi, se vogliamo salvare la Terra, va sottratto il potere sull’economia alle corporations. Bisogna rompere radicalmente con il capitalismo, sottrarre ai proprietari privati il controllo dell’economia, e pianificare quest’ultima secondo modalità democratiche: quelle dell’ecosocialismo. Bisogna ridurre l’iperconsumo e la sovraproduzione, regolamentare e sovratassare le grandi corporations, imporre rigorosi limiti alle emissioni di CO2 fino al bando dei combustibili fossili; eliminare progressivamente oleodotti, gasdotti, allevamenti intensivi, monocolture intensive e l’imposizione degli OGM; espropriare beni privatizzati come l’acqua e le terre, e riappropriarsi dei servizi pubblici; ridurre le spese militari, cancellare i debiti del Sud del mondo e soprattutto garantire diritti e benessere alle classi sociali disagiate e ai migranti climatici attualmente vittime di un «apartheid climatico». Tanto altro va compiuto. Le odierne condizioni del clima terrestre provocano fenomeni allarmanti: calamità naturali, desertificazione, scarsità di cibo, assenza d’acqua potabile e di conseguenza feroci conflitti etnici. Bisogna rovesciare l’attuale paradigma economico basato sulla competizione e costruirne uno nuovo basato sulla cooperazione.

Contro il capitalismo per salvare il clima

L’insurrezione globale per la giustizia sociale e per il clima contro le disuguaglianze, il razzismo, il capitalismo è ancora agli inizi, non è certa del proprio avvenire, ma i suoi istinti anti-sistema e democratici sono – probabilmente – l’ultima e la migliore speranza dell’umanità. Una visione diversa del mondo può essere la nostra salvezza. Stiamo combattendo per non morire, per modificare in ogni suo aspetto la società globale. Noi non difendiamo la Natura, noi siamo Natura che si difende.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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