Psichiatra Fabrizio Starace, intervista sulla salute mentale
Fonte: Associazione Luca Coscione. In foto lo psichiatra Fabrizio Starace

Dalla salute mentale ai servizi sociali, passando per le nuove istituzioni totali: abbiamo deciso di voler approfondire una serie di tematiche che in questo periodo storico hanno assunto ulteriore rilievo. Per farlo ci siamo rivolti a Fabrizio Starace, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Modena, presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica nonché componente del comitato di esperti scelti dal Consiglio dei Ministri in questo periodo di emergenza.

C’è un rischio per la salute mentale: la pandemia rischia di mettere in crisi anche la scienza della resilienza presente in ognuno di noi. Forse la sfida del comitato di esperti del Consiglio dei Ministri dovrebbe muoversi in opposizione al distanziamento, escludere in molti casi l’alternativa digitale e pensare a come essere presente sui territori attraverso un sistema di prolungamento di funzioni nei vari livelli territoriali. Può risultare una sfida verso una maggiore prossimità? Sembra un ossimoro, ma le sfide spesso vanno in direzione contraria.

«La pandemia da coronavirus ha messo a dura prova l’intero sistema sanitario del Paese e ne ha evidenziato tutte le criticità e i limiti. Le ripercussioni che l’emergenza ha prodotto sulla salute mentale della popolazione e sulla capacità di risposta dei Servizi sono state numerose e i danni prodotti potranno essere quantificati solo nel medio-lungo periodo. A dispetto di tutte le evidenze derivanti dalle precedenti epidemie, e di tutti i piani per la gestione delle emergenze pandemiche, la sofferenza psicologica è stata messa in coda alle priorità di salute. Una comunicazione confusa e spesso contraddittoria ha accentuato, inoltre, il malessere generale associato all’incertezza ed ha reso vane (talvolta controproducenti) le prime prescrizioni preventive. E ancora – prosegue – la lunga fase di lockdown, mai prima d’ora sperimentata su così vasta scala, ha determinato reazioni ansiose e depressive in ampie fasce della popolazione. Infine, la crisi economica, solo parzialmente attutita dai provvedimenti adottati a sostegno dei più esposti, ha rapidamente iniziato ad esercitare i suoi effetti devastanti sulla stabilità dei singoli e sulla coesione delle comunità. In questo contesto, rafforzare le attività territoriali diviene necessario e urgente, non solo per impedire il diffondersi della pandemia, ma anche per mitigarne le conseguenze sulla salute mentale. In questa prospettiva, implementare interventi nei contesti di vita delle persone, oltre ad evitare l’esposizione degli utenti ai contesti ospedalieri, consente di recuperare una dimensione dell’attività territoriale meno influenzata dai diaframmi imposti dalle tecniche e più attenta alle relazioni che la persona ha con il proprio contesto familiare e sociale. Gli interventi domiciliari costituiscono anche il luogo privilegiato dell’osservazione e della condivisione dei comportamenti di prevenzione del contagio, consentendo una fondamentale opera di educazione alla salute, estesa, oltre che alla persona assistita, al suo nucleo di convivenza. Quanto all’uso della telemedicina, l’attenzione dovrà essere riposta nell’integrare le opportunità offerte dai collegamenti telefonico/telematici nel percorso terapeutico, arricchendolo di più frequenti contatti, sfuggendo alla tentazione di un uso sostitutivo degli stessi rispetto alla fondamentale relazione interpersonale.»

Oggi sappiamo che il sistema sanitario riesce a coprire molti dei bisogni previsti dai Livelli Essenziali Assistenziali che sono alla base del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Un fatto grave che si ripercuote soprattutto sulle fasce deboli. Qualcuno invoca l’esercito per strada, ma se non si finanzia la Sanità, se non si organizza l’assistenza domiciliare, tra qualche mese ci troveremo molto probabilmente nelle stesse condizioni. Secondo lei le scelte governative hanno e stanno aiutando il sistema sociosanitario?

«I presìdi sanitari territoriali, ed in particolar modo quelli per la Salute Mentale, sono stati impoveriti da una pluriennale politica di tagli a risorse e personale, ed hanno ridotto fortemente la propria operatività. I fondi stanziati dal governo per rafforzare gli organici sono stati utilizzati solo in parte, e l’uso degli strumenti telematici ha solo marginalmente sopperito all’assenza di contatto diretto, accentuando peraltro le disuguaglianze di accesso tra chi ne aveva disponibilità e chi non poteva permetterseli. Le strutture residenziali per la Salute Mentale, anche se in misura minore di quelle per anziani, hanno registrato focolai di contagio tra operatori e ospiti, determinando scelte generalizzate di chiusura all’esterno, e sospensione sine die delle attività riabilitative e di inclusione sociale. Un vero aiuto al sistema sociosanitario potrà derivare dall’analisi delle vulnerabilità evidenziate dalla pandemia e dall’attuazione di concrete strategie per il loro superamento. Prevedendo la riconversione delle strutture residenziali che replicano sul territorio le medesime dinamiche di istituzionalizzazione che pensavamo di aver superato con la chiusura degli ospedali psichiatrici.»

Esiste un monitoraggio a livello nazionale per valutare la presenza, la frequenza e i cambiamenti di disturbi come l’ansia, la depressione, pensieri suicidi e quant’altro che possano almeno orientare le azioni da prendere nell’immediato?

«Questo è un punto molto dolente: le attività di monitoraggio che il Ministero della Salute esercita per il tramite delle Regioni riguardano struttura e attività del sistema di cura per la salute mentale, ossia il numero e le caratteristiche delle persone che si rivolgono alla rete dei Dipartimenti di Salute Mentale, peraltro rendendole disponibili con 1-2 anni di ritardo rispetto al periodo di effettiva rilevazione. Nulla conosciamo circa l’effettivo numero di coloro che in un certo momento presentano condizioni di malessere psichico, se non affidandoci a indagini limitate, condotte con metodi perlomeno discutibili, finanziate spesso da portatori di interessi commerciali. La nostra richiesta di valutare frequenza ed evoluzione nel tempo dei c.d. disturbi psicologici/psichiatrici comuni, come ansia e depressione, in campioni rappresentativi della popolazione non è stata a suo tempo accolta dal Comitato Tecnico Scientifico. Evidentemente la salute mentale continua a non essere considerata una priorità

In alcune regioni, e penso subito alla Lombardia, le RSA sono diventate l’epicentro di molti focolai. Si parla poco anche delle condizioni sociosanitarie dei penitenziari: avemmo qualche informazione in più solo nel primo lockdown, in quanto alcuni detenuti manifestarono la necessità di avere dei bisogni proprio come ognuno di noi. Oggi si temono altre rivolte, i contagi sono raddoppiati, la situazione è grave. Insomma, in Italia si muore di Coronavirus e si muore di istituzioni totali.

«Il sistema della residenzialità, che ospita oltre 30.000 persone con problemi di salute mentale (ma alcune centinaia di migliaia di persone anziane, disabili, tossicodipendenti), originariamente pensato come alternativa ai grandi istituti, ha finito con l’essere organizzato (con l’espediente dei moduli) in strutture che accolgono anche centinaia di persone. La cronaca ne ha mostrato l’elevata vulnerabilità al virus, oltre che alle derive istituzionalizzanti e cronicizzanti. Esso va profondamente riprogrammato, riaffermando la scelta dei piccoli numeri, della funzione abitativa e abilitativa, della dimensione relazionale di tipo familiare. Allo stesso modo va affrontata con soluzioni emergenziali anche la situazione che si sta verificando nelle carceri, a salvaguardia della salute dei detenuti e del personale di vigilanza.»

Oltre al sistema sanitario, anche i servizi sociali sono in una condizione di burnout. Spesso sono proprio loro a tessere relazioni di intervento imminente e di prevenzione. C’è sicuramente un problema di tipo economico, ma anche di organico: dovrebbe esserci almeno un assistente sociale ogni 10mila abitanti. Non intervenire in questo momento a supporto dei Servizi Sociali e di coloro che prestano servizio significa minare gli obiettivi prefissati a tutela delle fasce deboli. A rischio anche la tutela minorile. Dimenticare gli assistenti sociali significa dimenticare una categoria di bisogni. Concorda?

«Certo. Se confrontiamo le statistiche dei Paesi OCSE scopriamo che l’Italia è tra quelli che dispongono del minor numero di operatori sociali per abitante. Il nostro Paese preferisce orientare la spesa sociale verso l’erogazione “cash” invece che verso la strutturazione di servizi, con il risultato che riusciamo a far confluire una parte di questa spesa verso il “mercato nero” delle prestazioni sociali, come nel caso delle badanti. A mio avviso occorre recuperare la spesa sociale orientandola ad obiettivi di reale emancipazione e recupero di autonomia, definiti con i diretti interessati, ma senza che i servizi pubblici abdichino alla loro responsabilità di orientamento e verifica.»

Bruna Di Dio

Bruna Di Dio
Intraprendente, ostinata, curiosa professionale e fin troppo sensibile e attenta ad ogni particolare, motivo per cui cade spesso in paranoia. Raramente il suo terzo occhio commette errori. In continua crescita e trasformazione attraverso gli altri, ma con pochi ed essenziali punti fermi.

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