Leone XIV: Il Papa americano tra continuità e complessità
Fonte immagine: Wikimedia Commons

L’elezione del cardinale statunitense Robert Francis Prevost al soglio pontificio con il nome di Leone XIV segna un evento storico: il primo Papa americano, il primo appartenente all’Ordine di Sant’Agostino, il primo boomer a salire in Vaticano. Ma più che un’anomalia statistica, la sua elezione apre una nuova fase della Chiesa cattolica all’interno di un contesto globale in rapido mutamento.

Leone XIV si presenta come figura complessa, nel senso più tecnico del termine: sfuggente alle dicotomie semplici, difficile da collocare negli schieramenti consueti tra progressismo e conservatorismo. Il suo primo discorso è stato un manifesto di spiritualità cristocentrica, distante dalle coordinate sociopolitiche del pontificato di Francesco, ma ne ha anche evocato la voce e lo stile in forma di omaggio e continuità. La sua biografia, il suo percorso, le sue dichiarazioni passate e il contesto della sua elezione ci restituiscono, al di là del nome scelto, un’immagine stratificata e potenzialmente strategica.

Robert Prevost: un’identità complessa

Robert Francis Prevost nasce a Chicago nel 1955, da una famiglia con origini miste — francesi, italiane, spagnole — e compie i primi studi alla Villanova University, dove si laurea in matematica. Ma la matematica non è il centro della sua traiettoria: entra nell’Ordine di Sant’Agostino nel 1977 e successivamente si forma a Roma, presso il prestigioso Angelicum, dove ottiene il dottorato in diritto canonico. La sua storia personale è fortemente segnata dall’esperienza missionaria: vent’anni in Perù, dove diventa vescovo di Chiclayo e ottiene anche la cittadinanza peruviana.

Questo legame con l’America Latina — così caro anche a Papa Francesco — non è secondario. È lì che Prevost sviluppa una sensibilità pastorale legata alle periferie, ai migranti venezuelani, e a una teologia dell’incontro. Eppure, proprio in Perù si verifica uno dei due casi in cui il suo nome viene associato alla gestione discutibile di accuse di abuso sessuale all’interno del clero. L’altro è negli Stati Uniti. In entrambi i casi, il coinvolgimento di Prevost è stato molto trasversale e indiretto, più legato a criticità amministrative che a coperture consapevoli. Non sono mai emerse prove di insabbiamenti volontari o di ostacolo alle indagini, e il Vaticano ha negato ogni sua responsabilità in merito. In una recente intervista del 2023, Prevost ha dichiarato con nettezza che «il silenzio non è la soluzione» e che la trasparenza deve essere la prima risposta della Chiesa.

Nel 2023 viene chiamato a Roma da Francesco – che lo ha ordinato cardinale nello stesso anno – per dirigere il Dicastero per i Vescovi — un incarico cruciale, perché significa gestire la formazione e la nomina della classe dirigente ecclesiastica. Lì dimostra doti organizzative, spirito di mediazione, ma anche una tendenza all’accentramento, tipica del profilo da amministratore ecclesiastico esperto. Il suo stile è verticale, sacerdotale, meno sinodale di quanto ci si sarebbe aspettati. Non è un uomo di popolo, ma un uomo di struttura.

Nel suo primo messaggio da Pontefice, Leone XIV ha voluto lanciare un segnale simbolico che, al di là del contenuto spirituale, offre una chiave di lettura politica e strategica del suo pontificato. La scelta del nome richiama una possibile sintesi: non un compromesso sulla persona, quanto sulle priorità da portare avanti. I temi su cui insistere e a lui cari — migranti, ambiente, giustizia climatica — rientrano nel solco tracciato da Francesco, ma appaiono selezionati con attenzione, lasciando in secondo piano dossier più divisivi come i diritti LGBTQ+ o il ruolo delle donne nella Chiesa su cui Prevost sembrerebbe più scettico. Una decisione che pare mirare a tenere unita la doppia anima del Collegio cardinalizio: quella riformista e quella più tradizionalista. Leone XIV si presenta così come una figura di continuità selettiva, destinata a consolidare alcune riforme ma con toni meno divisivi, preferendo un’azione pastorale silenziosa a gesti dirompenti. Il suo appello a una “pace disarmata” contiene un messaggio chiaro: meno militanza ideologica, più profondità spirituale. Una grammatica della fede rassicurante, ma potenzialmente meno universale, che parla innanzitutto ai fedeli.

Linguaggio, strategia e segnali: la grammatica del nuovo pontificato

Nel suo primo discorso come Papa, Leone XIV ha evitato ogni riferimento sociologico: non ha parlato di giustizia sociale, povertà, migrazione in senso politico. Ha parlato di pace, sì, ma una pace disarmata e disarmante, frutto della fede e della grazia. È un cambio di tono rispetto a Bergoglio, più che un cambio di direzione. Dove Francesco raccontava la geopolitica della misericordia, Prevost sembra evocare una mistica della stabilità. La parola “pace” è stata ripetuta dieci volte: un’enfasi voluta, ma che si muove su un piano spirituale più che sociologico, meno incisivamente politico come Francesco e molto più istituzionale, senza eccessi di protagonismo.

Il linguaggio adottato è marcatamente cristologico, centrato sul Risorto, sul Dio che ama, sulla fiducia e sul discepolato. Le metafore sono spirituali, non sociali; le immagini sono evangeliche, non simboliche. Si tratta di una retorica rassicurante, lontana dalla densità drammatica e sociale di Francesco, ma profondamente coerente con una visione pastorale fondata su fede, obbedienza e silenzio interiore. La costruzione discorsiva è lineare, quasi liturgica, senza concessioni all’improvvisazione. Anche questo ci dice molto: Leone XIV non è un pastore di strada, è un amministratore spirituale, un ottimo comunicatore e public speaker ma sintonizzato sulla dottrina tradizionale. Un ponte.

Nella sua prima omelia, svoltasi all’interno della Cappella Sistina il giorno successivo alla sua elezione, Papa Leone XIV ha delineato un profilo teologico nitido: forte enfasi sulla centralità di Cristo, rigetto di ogni lettura mondana della fede, e un linguaggio verticale che privilegia la trascendenza. Una scelta comunicativa chiara, un punto di partenza da cui cominciare a lavorare: dalla perdita di fiducia, speranza e fede – quella vera – e non quella che considera Cristo un superuomo.

Il nome scelto, Leone, apre una triade di letture. Potrebbe essere il richiamo alla forza e alla regalità di Leone XIII, il Papa della dottrina sociale della Chiesa contenuta nell’enciclica Rerum Novarum; potrebbe anche essere un segnale di consolidamento: non una transizione, ma una linea da portare avanti nel tempo. A questo si aggiunge il fatto che Leone XIV ha citato nel suo discorso solo Pietro e Francesco — due figure complementari ma simbolicamente cruciali. Pietro è la pietra, il fondamento. Francesco, il predecessore.

Su alcuni temi chiave, come il cambiamento climatico e le migrazioni, Prevost è apparentemente allineato a Francesco. In un convegno vaticano del 2023 parlò della necessità di «passare dalle parole ai fatti» in tema di sostenibilità, ma non arrivò mai a mettere in discussione il sistema economico globale, come invece fece più volte il suo predecessore. In Perù ha dimostrato sensibilità verso i migranti venezuelani, ma non ha mai rilasciato dichiarazioni esplicite a favore di una cultura dell’accoglienza come “diritto”.

Ancora più ambigue sono le sue posizioni su temi bioetici e morali. Nel 2012, Prevost si lamentava pubblicamente dell’“omosessualità come stile di vita” e delle “famiglie alternative composte da coppie dello stesso sesso e bambini adottati”, che a suo dire i media occidentali promuovevano in opposizione al Vangelo. In Perù, si oppose all’introduzione degli studi di genere nelle scuole. Sono dichiarazioni che risalgono a più di un decennio fa, ma ancora non sono state ritrattate o aggiornate.

Sul ruolo delle donne nella Chiesa, ha affermato che “aprire al sacerdozio femminile non risolve un problema, ma rischia di crearne uno nuovo”, in perfetta sintonia con le posizioni della corrente conservatrice. Eppure, nel 2023, commentando la nomina di tre donne nel Dicastero per i Vescovi, parlò della loro presenza come di un “arricchimento”. Anche qui: una postura fluttuante, più diplomatica che ideologica.

Infine, è cruciale notare il contesto della sua elezione: un Papa americano nel peggior momento per l’America. In pieno declino di egemonia, mentre l’establishment è sotto attacco e le chiese evangeliche prosperano in una teologia della prosperità aggressiva, Leone XIV non rappresenta l’America trumpiana dei MAGA — anzi, ne è malvisto. Un segnale anche interno al Collegio cardinalizio, che ha scelto un profilo statunitense ma non trumpiano, quasi a voler occupare simbolicamente l’America mentre l’America perde centralità globale.

Il dato anagrafico, poi, è eloquente: Leone XIV è più giovane rispetto ai suoi predecessori al momento dell’elezione. Non è una scelta di transizione. È una linea da consolidare.

Nel contesto post-Francesco, Leone XIV eredita una macchina ecclesiastica stravolta ma non consolidata. I Dicasteri riorganizzati e il Sinodo in forma permanente pongono il nuovo Pontefice davanti a una scelta: proseguire nella collegialità o ricentralizzare il potere. Sul fronte internazionale, dovrà gestire il delicato rapporto con la Cina, in bilico tra dialogo e tensione. L’Asia, dove il cattolicesimo cresce più rapidamente, non può essere ignorata. I viaggi apostolici offriranno un banco di prova: ci si attende meno spontaneità, più solennità, un ritorno a una comunicazione papale più impostata rispetto allo stile di Francesco.

Leone XIV arriva in un momento di transizione e frammentazione interna alla Chiesa. Unisce spiritualità agostiniana e controllo istituzionale, linguaggio cristocentrico e struttura verticale, segni di continuità e tratti di discontinuità. La comunicazione iniziale non si concentra su sfumature sociali, ma costruisce una grammatica della fede rassicurante. Il pontificato potrebbe rivelarsi un esercizio di consolidamento, con aperture laterali e chiusure centrali. O potrebbe sorprendere, proprio come il suo predecessore.

Donatello D’Andrea

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