Il grande mare dei Sargassi è il romanzo di Jean Rhys, scrittrice britannica di origini caraibiche, pubblicato nel 1966. Si tratta di un interessante esercizio letterario: è il prequel e una risposta femminista e anticoloniale al romanzo Jane Eyre di Charlotte Brontë (1847), che si dà l’obiettivo di descrivere le circostanze e le dinamiche del primo matrimonio del signor Rochester e l’ereditiera creola Antoinette Cosway. Brontë, con tinte gotiche, aveva dipinto un’atmosfera ottocentesca, i cui aspetti culturali e sociali soffocano la realtà della donna, privata della sua libertà.
Il punto di partenza: “Jane Eyre” e i limiti del femminismo ottocentesco
Apparentemente sembra che Jane possa prendere con autonomia le sue scelte lavorative e relazionali, ma in realtà il suo raggio d’azione ha sempre un ostacolo che sia legato al denaro, all’istruzione, all’educazione ricevuta e all’uomo al quale vorrebbe legarsi o che vorrebbe possederla: per quanto si notino l’audacia e la lungimiranza che animano il suo cuore, il vincitore indiscusso del romanzo è proprio il signor Rochester. Seppur patisca importanti sofferenze, Mr Rochester manovra e gestisce le vite delle donne che lo circondano così come meglio vuole e gli conviene: da Adèle Varens, la figlia francese trattata come una bella bambola da esposizione; alle domestiche sempre operosissime, pronte a ogni suo bisogno; alle dame con cui flirta con il solo scopo di far ingelosire colei che vuole realmente sedurre; a Jane che conquista, tormenta con tutte le sue menzogne, per poi ottenerla, quasi come se l’aver provato il dolore dell’abbandono, possa redimere un uomo egocentrico e costantemente egoriferito, che ha devoluto la sua vita alla manipolazione.
Jean Rhys nel Grande mare dei Sargassi si interessa della figura femminile più affascinante e controversa di Jane Eyre: la “madwoman in the attic” (la pazza donna del sottotetto). Nel farlo affronta un lavoro di riscrittura fondamentale poiché dà voce a colei che non solo ne è stata privata, ma che è stata anche etichettata come folle. Delineare una donna come demoniaca e con delle fattezze spettrali vuol dire privarla della ragione ed è (ed era) un modo per sminuirla: perché dovrebbe esprimersi colei che non può elaborare alcuna idea di senso compiuto? Perché dare parola alla follia e al caos, al diverso e all’incomprensibile? Il suo pensiero perde di credibilità e di valore, il suo personaggio diventa inconsistente, sembra quasi impalpabile e a malapena traspare dalla veste bianca e fluttuante che lo ricopre.
Se gli uomini erano (e sono) sempre pronti a rivendicare se stessi alle spese delle donne, rinchiuse negli opprimenti confini dei ruoli di mogli e madri, la questione di genere si fa ancora più complessa e problematica se si guarda alle donne nate nella parte “sbagliata” del mondo. Nel 1655, in seguito alla guerra anglo – ispanica, il Guatemala passò dal dominio spagnolo a quello inglese: la nuova sovranità fu riconosciuta dalla Spagna con il Trattato di Madrid che sancì la dissoluzione della Giamaica spagnola (nota anche come Colonia di Santiago).
Il “colorism”: da Jean Rhys a Kaitlyn Greenidge
Il personaggio fittizio di Antoinette Cosway è originario del Guatemala e Jean Rhys gli fa raccontare in prima persona il suo incontro con l’inglese Mr Rochester (sebbene non riveli mai il suo nome). Antoinette è libera, irriverente, figlia di una donna carismatica (Annette), anima e fuoco della sua terra, parte del paesaggio selvaggio di cui si fa portavoce. Il romanzo non si sofferma però sul portare alla luce il razzismo interiorizzato dell’uomo europeo, ma si concentra su un fenomeno sociale ancora più ambiguo: la discriminazione nei confronti dei “neri bianchi”.
Nel 1982, Alice Walker (femminista nera rivoluzionaria) ha utilizzato per la prima volta il termine “colorism” inteso come «il trattamento pregiudizievole o preferenziale delle persone di una stessa razza basato esclusivamente sul loro colore». Esso non coincide con il razzismo anche se tra loro esiste un’evidente relazione: ad esempio, ai giorni nostri un’azienda che rifiuta di assumere persone nere è un chiaro esempio di razzismo. Un’azienda che preferisce una persona nera con un tono di pelle più chiaro rispetto a una dalla pelle più scura è invece un esempio di “colorism”. Tale forma di discriminazione si può dunque manifestare all’interno di una stessa etnia. Sul Guardian la scrittrice e attivista Kaitlyn Greenidge ha spiegato: «è significativo che il tentativo di definire questo fenomeno provenisse dalla teoria del femminismo nero, un campo di studio che tenta di collegare le eredità di razza, genere, sfruttamento e autodeterminazione. Il suo effetto è particolarmente sentito dalle donne nere a causa dei suoi legami con la desiderabilità, la femminilità e la sessualità percepite».
Nel Grande mare dei Sargassi jean Rhys scrive di come Antoinette, come Annette e sua zia Cora, sono nere dalla pelle chiara e per questo sono oggetto di invidia da parte dei loro concittadini.
«Allora neri e bianchi loro bruciano uguale, eh? [..] vecchia strega bianca!». Urla un inserviente a Cora, personaggio che assume il simbolo della rivalsa e della forza d’animo, una maestra di vita che, sempre fedele ai propri valori, decide che la strada dell’isolamento è l’unica che le avrebbe permesso di mantenere integra la propria etica e la propria dignità, a differenza di ciò che accadrà alle sue familiari.
Jean Rhys sottolinea come donne nere ma dalla pelle chiara sono il principale oggetto del desiderio da parte dei coloni che, oltre alla terra, intendono appropriarsi anche di amanti e di potenziali mogli (ancor meglio se affascinanti ed ereditiere). Ma il colore della pelle non basta a tenere lontani i pregiudizi e le barriere culturali e infatti madre e figlia subiranno un destino molto simile: prede di europei avidi e aridi, le tratteranno prima come premi, poi come degli animali selvaggi di cui sbarazzarsi e da nascondere sotto il tappeto.
Il “diverso” che intimorisce
Mr. Rochester sradica Antoinette dalla sua terra con la promessa di mostrarle il mondo e iniziarla all’affascinante ed elegante civiltà inglese. La promessa ha tutto il sapore delle menzogne che i coloni rifilavano agli schiavi africani, quando mascheravano lo sfruttamento umano con la promessa di un processo di civilizzazione. Infatti Antoinette non vedrà mai l’Inghilterra: rinchiusa in una soffitta, assaporerà solo le sfumature degli spessi e funerei tendaggi che le proibiranno la vista dell’esterno. Mr. Rochester inizierà a privarla anche del suo nome e la chiamerà Bertha, sovrapponendola a sua madre (a sua detta, una donna pazza). In letteratura il topos del nome è da sempre legato a quello dell’identità e della consapevolezza del sé: l’Uomo (sin dal libro della Genesi) può nominare solo ciò che ha appreso e che conosce e quindi ciò che può dominare. Antoinette urlerà più volte il suo nome, lotterà fino alla fine per non scomparire, lei sa chi è e sa da dove viene. «Lei è una di loro» sembra realizzare, solo una volta giunto in Inghilterra Mr. Rochester. Il luogo asettico che crea intorno ad Antoinette serve per spegnere il suo ardore, per rendere vuoti e freddi i suoi occhi, renderla folle privandole di qualsiasi fonte di felicità: «Vidi l’odio scomparire dai suoi occhi, lo costrinsi a scomparire. E con l’odio scomparve la sua bellezza. Lei non fu più che un fantasma. Un fantasma nella luce grigia del giorno. Non rimase che la disperazione. Alzò gli occhi, begli occhi vuoti. Occhi pazza. Una fanciulla pazza.»
Come incantesimi di una megera, dalla soffitta riecheggiano le antiche canzoni della sua terra, quelle che cantava sua madre, quelle che avevano il sapore dei caldi raggi del sole di cui non vedrà più alcun bagliore. In una narrazione ciclica, Jean Rhys collega la sorte della madre e quella della figlia, unite dall’ardore e dal desiderio di bruciare un mondo che le ha messe ai confini, inermi e disarmate e Mr. Rochester teme di toccare la moglie poiché, come un uragano, potrebbe distruggere e fagocitare ciò che le è accanto.
Alessia Sicuro