Nella serata di mercoledì 15 gennaio il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La notizia è arrivata a più di un anno di distanza dall’inizio della guerra, per la precisione 15 mesi dopo, in una situazione ormai al limite: decine di migliaia di palestinesi hanno perso la vita in un vero e proprio genocidio, tra gli attacchi e i bombardamenti dell’esercito israeliano. Le negoziazioni per una tregua sono proseguite per diversi mesi e, nel frattempo, intere città a Gaza sono state devastate e la maggior parte delle infrastrutture e delle abitazioni è andata distrutta. I civili sono impossibilitati ad accedere alle cure mediche di cui avrebbero bisogno e ai servizi essenziali, costretti a fare i conti con una carenza d’acqua e di cibo (anche a causa delle restrizioni israeliane agli aiuti umanitari).
L’annuncio dell’accordo tra Israele e Hamas è stato accolto con festeggiamenti nella Striscia di Gaza. Eppure è evidente che l’intesa sia arrivata troppo tardi. Dal 7 ottobre 2023, in seguito all’attacco a sorpresa di Hamas sul territorio israeliano, la condizione di oppressione a cui già era sottoposta la popolazione palestinese ha avuto un’escalation che ha portato all’ennesima, devastante crisi umanitaria. Un anno dopo, alla data del 7 ottobre 2024, si registravano oltre 42mila morti (di cui più di 13.300 bambini e bambine) mentre il numero dei feriti superava i 97mila. Gaza ha subito danni senza precedenti e le continue violenze e tensioni stanno stremando i civili.
L’accordo, che è entrato in vigore domenica 19 gennaio, si divide in tre fasi. La prima prevede il rilascio di 33 ostaggi vivi da parte di Hamas (principalmente bambini, anziani, donne e civili feriti) e di centinaia di prigionieri palestinesi da parte di Israele, che ritirerà le sue truppe dalle zone più densamente popolate di Gaza. La lista dei 33 ostaggi comprende cinque soldatesse israeliane che dovrebbero essere rilasciate in cambio di 250 prigionieri palestinesi, tra cui sono presenti circa 30 condannati all’ergastolo. Ci sarà un periodo di cessate il fuoco di 42 giorni, durante il quale i civili palestinesi potranno fare ritorno a nord della Striscia (attualmente sotto l’assedio di Israele).
A Gaza inoltre dovrebbero aumentare le consegne di aiuti umanitari, con l’ingresso di 600 camion per la consegna di beni di prima necessità. Il corridoio Filadelfia, però, continuerà a essere occupato dalle truppe israeliane che dovranno via via ridurre la loro presenza sul territorio. Non sono ancora stati definiti i dettagli delle fasi successive. In base alle previsioni, nel corso della seconda fase sia Hamas che Israele si impegneranno nel rilascio di altri prigionieri. Da Gerusalemme, inoltre, verrà disposto il completo ritiro da Gaza. Mentre nella terza fase Hamas consegnerà i corpi degli ostaggi morti e Israele dovrà provvedere all’attuazione di un piano di ricostruzione sulla Striscia sotto la supervisione internazionale. Le negoziazioni definitive avverranno durante la prima fase, che sarà dunque la più decisiva.
Per il raggiungimento dell’accordo tra Israele e Hamas si è resa necessaria la mediazione di altre nazioni, tra cui gli Stati Uniti e il Qatar (dove da giorni si stanno tenendo le contrattazioni). Mercoledì scorso i negoziatori delle due fazioni hanno approvato l’intesa nella capitale Doha. Tuttavia, se Hamas ha espresso prontamente il suo consenso al cessate il fuoco, si è dovuto attendere per una conferma definitiva di Israele. In seguito all’annuncio del raggiungimento del negoziato, infatti, il presidente Isaac Herzog aveva invitato il consiglio di sicurezza e il governo israeliani ad approvare l’accordo in occasione della riunione del giovedì mattina. Il giorno seguente, tuttavia, l’ufficio di Benjamin Netanyahu ha fatto un passo indietro parlando di una crisi con Hamas, che avrebbe tentato di «estorcere concessioni dell’ultimo minuto», di cui non si era discusso in precedenza.
A poche ore dall’annuncio della tregua, inoltre, le forze armate israeliane sono tornate ad attaccare i civili palestinesi: nella notte tra mercoledì 15 e giovedì 16 gennaio ci sono stati tre raid a Gaza che hanno causato la morte di oltre 100 civili. L’ufficio del primo ministro ha sostenuto che Hamas stava chiedendo di poter «dettare l’identità» dei prigionieri palestinesi che l’accordo prevede di rilasciare. Israele ha il diritto di veto sulla liberazione di «assassini di massa che sono simboli del terrore», come sostenuto nel comunicato del gabinetto. I negoziatori, di conseguenza, sarebbero stati incaricati da Netanyahu di «respingere categoricamente i tentativi di ricatto dell’ultimo minuto di Hamas», così che l’accordo potesse essere rispettato.
L’incontro del gabinetto (fissato alle 11 ora locale di giovedì, ossia le 10 in Italia) è stato rimandato fino a quando Hamas non avesse accettato tutti i punti dell’intesa, come affermato dall’ufficio di Netanyahu. I rappresentanti del gruppo presenti a Doha, però, hanno dichiarato di non aver presentato richieste aggiuntive. L’alto funzionario Izzat el-Risheq ha risposto alle accuse di Israele, secondo cui il gruppo avrebbe tentato di imporre nuove condizioni riguardanti gli ostaggi, affermando che Hamas non ha avuto alcun ripensamento. Per il movimento, infatti, l’intesa rappresenta un traguardo importante. Khalil al-Hayya, uno dei leader di Hamas, in un discorso televisivo ha definito l’accordo di cessate il fuoco un momento storico per i palestinesi e una sconfitta per Israele: «Non sconfiggerà mai il nostro popolo e la sua resistenza», sono state le sue parole.
Secondo l’emittente Kan il ritardo nell’approvazione dell’intesa con il gruppo è da condurre in realtà a una crisi tra il premier israeliano e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e leader del partito di estrema destra Sionismo Religioso. Quest’ultimo ha dichiarato che acconsentirà all’accordo solamente se, dopo la prima fase, Israele riprenderà la sua offensiva per eliminare Hamas. In caso contrario il partito si è detto pronto a lasciare il governo. Da quanto emerso sul portale Ynet, Smotrich si aspettava di ricevere una dichiarazione per iscritto da parte del primo ministro sul proseguimento della guerra. Ma nonostante le minacce di abbandono del partito sostenitore di Netanyahu, nel tardo pomeriggio Israele è tornato sui suoi passi. Fonti di Hamas hanno annunciato che sono stati risolti i fraintendimenti con il gabinetto israeliano in merito ai punti più discussi dell’accordo.
Venerdì mattina, infine, Netanyahu ha confermato che i negoziatori sono riusciti a superare le questioni irrisolte, aggiungendo che le famiglie degli ostaggi sono state aggiornate sul raggiungimento dell’intesa e che dunque sarebbero stati liberati. Intanto, però, nel governo israeliano si sta creando una frattura: oltre a Smotrich e al suo partito, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (a capo del partito di ultra-destra Potere Ebraico) ha dichiarato che, qualora l’intesa dovesse essere attuata, ritirerà il suo sostegno a Netanyahu. Il politico ha definito l’accordo «un regalo ad Hamas» che impedirà al governo di eliminare definitivamente il gruppo. Senza i partiti che lo supportano, il premier israeliano rischia di perdere importanti alleati, ritrovandosi con una maggioranza estremamente precaria. E l’accordo tra Israele e Hamas potrebbe rivelarsi un pericoloso fuoco di paglia per meri calcoli politici.
Cindy Delfini
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