Il Signore degli anelli: come Tolkien ha creato un classico
Il Signore degli anelli venne pubblicato in tre volumi fra il 1954 e il 1955 e, a oggi, tutte le avventure ambientate nella Terra di Mezzo continuano ad appassionare i fruitori, ammaliati dopo decenni dalla penna di J.R.R. Tolkien tanto da alimentare il mercato del merchandising, dell’editoria e delle produzioni videoludiche. Ma come può un’opera scritta e pensata nel secolo scorso ancora fomentare così tanto le masse? Un’opera per giunta fantasy, dettaglio che avrebbe scoraggiato i lettori più snob, proprio come quelli italiani, tendenzialmente ossessionati dalla letteratura classica ed elitaria?
Durante la progettazione e la stesura delle sue opere, J.R.R. Tolkien discusse con Milton Waldman, all’epoca direttore dell’editore Collins, riguardo a una possibile pubblicazione congiunta di Il Silmarillion e Il Signore degli anelli. Nella lettera numero 131, tratta da La realtà in trasparenza, un volume epistolare edito Bompiani, Tolkien si dice costernato dalla povertà letteraria inglese, poiché a sua detta non esistevano storie veramente legate alla sua Britannia, all’altezza dei miti e delle leggende classiche e nordiche. Naturalmente c’era il ciclo arturiano ma, pur nella sua potenza, non era a sua detta naturale espressione della sua terra e della sua lingua.
Avvertendo quindi la mancanza di un complesso monumento letterario totalizzante, decide di devolvere la sua penna a tale progetto ambizioso. L’idea era quella di attingere all’epica e costruire uno scheletro narrativo intrecciando i saldi valori divulgati dai topoi dell’arte classica, col fine di comunicare quelli che sono gli istinti e i sentimenti umani più ancestrali (paura, ira, avarizia, amore, fedeltà, egoismo, coraggio…). Tolkien sosteneva che «la fiaba e il mito devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi assieme elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma riconosciuta del mondo “reale”, primario». Intrecciando quindi questi elementi narrativi ha dato vita alle trame ambientate nella Terra di Mezzo creando un universo fittizio a sé, con una minuzia tale da sentire l’esigenza di inventare una nuova lingua (quella elfica) che rispettasse gli stessi meccanismi dei sistemi linguistici che regolano l’evoluzione del parlato.
Tutto questo materiale, come sappiamo, ha poi affascinato il regista neozelandese Peter Jackson che, dal 2001 al 2003, ha portato al cinema la trilogia: La compagnia dell’anello, Le due Torri e Il ritorno del re, e dal 2012 al 2014 la trilogia de Lo Hobbit, ridando vita a opere destinate alla sola lettura e allo studio, rendendole quindi universali e facilmente accessibili a ogni fruitore.
La fanbase e la commercializzazione del prodotto
Questa premessa è utile per pesare tutto lo spessore letterario e divulgativo de Il Signore degli Anelli, opera che si è guadagnata un’ampia platea di fan particolarmente devoti che oltreoceano si identificano con l’etichetta di Ringer, in Europa con quella di Tolkeniani. Ringer e Tolkeniani si dedicano con tanta devozione alla lettura, rilettura e approfondimento delle opere di Tolkien da aver colonizzato ampie lande digitali (blog, riviste letterarie, canali radio, pagine social, canali Youtube) in cui alimentano la loro passione studiando nei minimi particolari gli scritti di Tolkien padre e figlio (Christopher), riuscendo quindi a catturare l’attenzione anche delle nuove generazioni.
A differenza delle altre fanbase, quella dedita all’autore inglese è riconosciuta dalle masse come “troppo tossica, troppo pretenziosa, mai contenta di nulla” perché il suo approccio è accademico, scrupoloso e scientifico. È raro quindi che prodotti nuovi soddisfino le loro altissime aspettative. Un assaggio ci è stato dato dalle lotte a suon di commenti feroci sulle piattaforme social riguardo Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, la serie televisiva statunitense creata da J. D. Payne e Patrick McKay e prodotta da Amazon MGM Studios. La prima stagione è costata 450 milioni di dollari poiché i produttori sentivano l’esigenza di uguagliare o addirittura superare in fotografia ed effetti speciali i livelli raggiunti da Jackson, anticipando l’atteggiamento ostico e ipercritico dei fan della saga. La serie è ambientata nella Seconda Era della Terra di Mezzo e, sebbene si tratti di un libero adattamento (a causa delle difficoltà di ottenimento dei diritti sul Silmarillion), le recensioni negative sono fioccate e hanno colpito ogni dettaglio: la scelta degli attori, la gestione dell’arco temporale alla base delle vicende narrate, la selezione dei personaggi da approfondire o dei nuovi personaggi introdotti, e via dicendo. Sebbene tali difficoltà, questo prodotto è comunque risultato tra i più visti, avendo attratto un bacino di udienza particolarmente ampio e variegato.
Ciò che inizialmente si è vincolato al mondo virtuale ha inoltre preso piede anche in quello reale. Tanti anni di immersione nell’opera di Tolkien hanno infatti scatenato l’esigenza di vivere e toccare con mano (almeno in minuscola percentuale) l’essenza di una “vita da hobbit”. Da qui nasce, per la lungimiranza di Nicolas Gentile, il 37enne pasticcere con la passione per il fantasy, il progetto della Contea Gentile, ancora in fase di completamento. Si tratta della realizzazione di un villaggio fantastico immerso nell’immutata campagna abruzzese, a cui si sta dando le connotazioni della Contea della regione di Arda, con la costruzione delle sue tipiche case scavate nella collina, delimitate da boschi e terre coltivate. Ma com’è possibile questo fenomeno? E soprattutto, Tolkien lo avrebbe apprezzato?
Tolkien: un liberale avverso al Potere
Se da un lato il suo obiettivo era quello di creare un ciclo di storie paragonabili a quelle che sono andate ad alimentare i poemi epici dell’Iliade e dell’Odissea, dall’altro, con la sua penna, aborre lo spirito avaro e violento dell’Uomo. Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. I suoi corrispettivi letterari, Bilbo e Frodo Baggins, sono Hobbit semplici e miti che inaspettatamente si ritrovano immischiati in avventure che potrebbero avere risvolti fatali. Le loro storie mostrano la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo, anche del più pacato, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo, in nome di una giusta causa: combattere ogni forma di oppressione.
Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, costruisce un antagonista (Sauron) che è la rincarnazione del Potere stesso, e in più esprime le sue ripercussioni per mezzo della cupidigia e della bramosia di chi decide di passare al lato oscuro. Il messaggio è che il potere corrompe e che i grandi uomini sono quasi sempre malvagi. Saruman, per esempio, si illude di studiare il Nemico, ma la sua mente viene corrotta dalla visione ripetuta della potenza di Sauron, che insinua nella sua mente la paura per il futuro e la brama di potere. Viene così condotto verso la disperazione e l’autodistruzione.
Ancora, in un dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello il primo ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra per mezzo dell’Anello. Boromir è la rappresentazione di chi puerilmente crede nella capacità di riscrivere la storia da zero. Aragorn controbatte che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male.
Cosa significa, oggi, avere questo potere? Significa soprattutto avere potere d’acquisto (che in guerra si evolve in poter comprare armi), gestire il mercato e ottenere ingenti fonti di denaro utili all’accrescimento del proprio impero commerciale. Nella società fluida (come è teorizzata da Bauman) bombardata da notizie e pubblicità, solo chi ha la possibilità di investire del denaro nella comunicazione, nel miglioramento della propria immagine, nell’acquisto di servizi e/o di tutto il pacchetto aziendale, ha il privilegio di essere visto e di restare, immortale, al di sopra delle macerie delle “ultimissime” postate ogni secondo.
Ciò che sopravvive, insomma, è un potere “padronale”, la cui iconografia è del tutto inedita poiché figlia della rapidità, della trasformazione e del multitasking. L’opera di matrice epica di Tolkien si è così tramutata in un prodotto da spolpare fino all’osso in onore di quel dio denaro che, individuata la preda, non può lasciarla andare almeno finché essa non inizierà ad annoiare le masse poiché non avrà più nulla da comunicare. Ma una narrazione dei sentimenti più viscerali, che trova il suo fulcro nell’eterna lotta tra luce e buio, portando a galla i lati più oscuri di un uomo che (come i Nazgul e come Sméagol) si fa consumare dalla brama di potere, può mai smettere di parlare al pubblico?
La macchina del capitalismo non si arresta, può essere questa un’occasione per divulgare per generazioni un’opera che rischierebbe di appesantirsi se privata dei gadget e dei videogiochi che sono pronti a svecchiarla e a renderla immediata. Ma, ancora una volta, si parla di un sistema di commercializzazione che pesa un prodotto (anche il più filosoficamente complesso) solo sulla base di quanto può rendere la sua vendita e che, per renderlo merce di scambio, dovrà puntare alla sua semplificazione e banalizzazione. Si è, da anni, esorcizzato tale processo col fine di oggettificare e monetizzare la parola, l’arma più intima di cui disponiamo.
Alessia Sicuro