Lavorismo: divinizzazione del «lavoro morto»
Banksy - ''Capitalism'' (Pinterest)

Un miasma irrespirabile aleggia lungo l’intero globo, ed è il fetore del lavorismo. La sua origine è rinvenibile da un corpo ormai in decomposizione che, però, da decenni è stato divinizzato e domina incontrastato la società capitalistica: il lavoro.

La società dominata dal lavoro e dalla sottocultura lavorista si fonda sul disumano principio del «chi non lavora non mangia!»; così il lavoro in quanto potenza totalitaria determina il modo di pensare e d’agire d’ogni persona fagocitandone il tempo di vita e colonizzandone l’immaginario. Difatti, il lavoro non tollera nessun’altra divinità all’infuori di sé e la venerazione di quest’ultimo, intrinseca al pervasivo lavorismo, riduce gli individui in una condizione di sfruttamento, sussistenza, esaustione e atomizzazione. Non a caso l’idea malsana secondo cui è meglio svolgere un lavoro qualsiasi – sottopagato o addirittura gratuitamente – anziché non svolgerne alcuno è ormai un dogma introiettato e professato da chiunque. Ciò evidenzia che nel ciclo auto-perpetuantesi d’accumulazione capitalistica, sia dal punto di vista del lavoro sia dal punto di vista del capitale, il contenuto qualitativo della produzione è assolutamente trascurabile: che cosa si produce, a quale scopo e con quali conseguenze è del tutto indifferente, contano soltanto il produrre per produrre e la massimizzazione dei profitti.

Dunque, è imprescindibile dover accettare qualsivoglia lavoro, dimostrare un’incondizionata disponibilità al lavoro affinché l’irrazionale macchina del capitalismo possa essere alimentata in aeternum. In virtù di ciò vengono adoperate e giustificate numerose misure politico-morali di workfare stigmatizzanti e colpevolizzanti nei confronti dei disoccupati e di chi si rifiuta di lavorare o, più precisamente, di lasciarsi impunemente ricattare e sfruttare. Nel frattempo, lo Stato non solo dà adito a continue privatizzazioni, escludendo un numero sempre crescente di persone dalle più elementari prestazioni d’assistenza, innalza l’età pensionabile e mediante fondi pubblici garantisce costanti agevolazioni fiscali alle aziende e, come se non bastasse, la mancata indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita favorisce il fiorente e ampio settore del lavoro precario e sottopagato. Inoltre, si diffondono sempre di più forme di lavoro non salariato – tirocini formativi e lavori cognitivi – e, in alcuni casi, si manifesta un ritorno della relazione schiavistica, soprattutto nel settore agricolo e nel cosiddetto terziario, dove la razzializzazione, il sessismo e finanche l’utilizzo della violenza corporea sono del tutto normalizzate.

Lo Stato non organizza la libera autodeterminazione dei componenti della società rispetto all’allocazione e all’utilizzo delle risorse in un’ottica collettiva, bensì norma e regola i rapporti fra le monadi lavoratrici, socialmente alienate e subalterne alle dinamiche di speculazione del mercato oligarchico: un’apartheid sociale in una spirale di stagnazione debitocratica. In sintesi, l’amministrazione repressiva degli esseri umani, in nome dell’idolo lavoro, e la scriteriata, impersonale logica di valorizzazione capitalistica permeano ogni ambito dell’esistente.

«In fondo […] si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia, e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all’amare, all’odiare». (F. Nietzsche, Aurora).

Quindi l’ontologia aziendale, la codificazione economica, la prescrizione della crescita come modello disciplinare e performativo incontrastato, imperituro e in quanto aspettativa individuale-collettiva di dover essere e di realizzazione del sé funzionano come una gabbia che imbriglia le possibilità di reale condivisione e godimento del prodotto del lavoro sociale. Ciononostante, nelle ultime decadi la potenza produttiva ha subito una vertiginosa accelerazione e si è espansa a dismisura in seno al processo di globalizzazione. Infatti, in seguito alla crescente informatizzazione e robotizzazione dei processi produttivi la produzione di ricchezza si è sempre più separata dall’utilizzo della forza-lavoro umana e ciò ha inevitabilmente creato una profonda crisi nella società del lavoro.

Benché l’ideologia del lavorismo borghese abbia reso il lavoro un’eterna legge di natura imposta agli esseri umani, l’idolo secolarizzato è ormai cadaverico. Infatti, le recenti proteste in Francia rimarcano tutto ciò: lo scopo del movimento è il rifiuto del lavoro e delle insostenibili prospettive di depauperamento e brutalizzazione in seno al capitalismo. Sul piano categoriale vi sono delle insanabili criticità immanenti alla società che ha feticizzato il «lavoro morto» perché, più acute sono le crisi sistemiche, maggiormente si percepiscono i limiti storico-sociali di siffatto paradigma. A tal proposito, Karl Marx ha scritto: «Il lavoro è per sua essenza un’attività non libera, inumana, asociale, condizionata dalla proprietà privata e creatrice di proprietà privata. Il superamento della proprietà privata diverrà reale quando verrà concepito come superamento del lavoro». Soltanto nella lotta inesausta contro la monopolizzazione di tutte le risorse sociali e d’ogni potenziale ricchezza saccheggiata da parte dello Stato e dei mercati, sarà possibile conquistare spazio e tempo per la liberazione dal «lavoro morto» e per l’emancipazione sociale.

Riots in Francia, 2023 (la Repubblica)

Il lavoro nella società capitalistica è un principio-motore mercificante, inumano, anti-ecologico e coercitivo, che domina le relazioni umane e non-umane, è puro dispendio di forza-lavoro affinché si generi plus-valore, totalmente avulso dai bisogni e dalla volontà della working class. È evidente che il lavoro non va identificato in alcun modo con le attività che gli esseri umani praticano nel relazionarsi con la natura e tra di loro, cercando così di soddisfare i relativi bisogni primari e non solo. Le dimensioni dell’affettività, dell’erotico, della cura, della condivisione, dell’educazione e dei processi cognitivi, forniscono un apporto vitale in termini di riproduzione sociale e d’innovazione alla società capitalistica nonostante siano invisibilizzate e spesso non retribuite, con ciò è necessario rivendicarne e riconoscerne l’enorme valenza sociale e la loro irriducibilità rispetto alla forma del capitale che ne comprime le potenzialità e ne perverte le finalità.

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Lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (Collections – V&A)

Per cui è proprio dall’urgenza di rifiutare il modello predatorio dell’homo oeconomicus che si manifesta l’esigenza d’inaugurare un tempo di ricchezza comunemente vissuta e non di valore accumulato.

La dittatura del lavoro e l’espropriazione del tempo

In una società intrisa di lavorismo può valere come ricchezza vera e propria solo ciò ch’è rappresentabile in forma monetarizzata. Però mediante la dittatura del lavoro il capitalismo cronofago non tende esclusivamente all’appropriazione indebita di quell’entità onnipervasiva che da circa duemilaottocento anni si propaga tra il reale e il fittizio, ossia il denaro. Deve necessariamente impossessarsi definitivamente della dimensione astratta del tempo di vita.

L’irrefrenabile sovrapproduzione capitalistica non può tollerare un tempo fatto d’inattività, d’ozio e di contemplazione, tutt’altro, pretende l’espansione della sua attività sino ai limiti estremi fisici e biologici. Perciò all’interno di tale brutale conflitto temporale 24/7 si concretizza una tendenza nevrotica, inveterata e mercificante tesa a ridurre ai minimi termini il tempo libero. Difatti, gli esseri umani vengono espropriati non solo delle condizioni della loro riproduzione ma anche del loro tempo di vita: divengono de facto una duplice riserva di denaro e di tempo da prelevare senza limiti. È evidente che per un accrescimento dei profitti sia indispensabile il concatenamento tra lavoro reale e lavoro immaginario. In tal modo, il tempo libero non è tempo liberato bensì viene assimilato al tempo di lavoro e diviene un ambito funzionale alle logiche capitalistiche: tempo funzionalizzato per il permanente consumo di merci. L’individuo capitalista è un soggetto di prestazione sia che guadagni denaro, sia che lo spenda.

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Banksy (RSSing.com)

Difatti, il tempo della produzione è totalmente dissociato da tutte le necessità e gli scopi autodeterminati di chi produce, diventa, pertanto, una risorsa potenzialmente illimitata da sfruttare. Avviene con ciò non solo la colonizzazione della dimensione spaziale ma ovviamente anche della dimensione temporale. Il capitalismo cronofago plasma un mondo in perenne stato di veglia, popolato da individui flessibili, capillarmente sorvegliati e dediti esclusivamente al lavoro e al consumismo. Così è sorto uno spazio-tempo capitalistico computazionale, uniforme e universalmente astratto che ha cominciato a divorare il corpo sociale: il tempo di lavoro è un tempo ove la libertà è assente, un tempo in cui gli esseri umani si sacrificano per un fine in sé a loro estraneo e determinato dal produttivismo capitalistico.

Jean-Paul Galibert nel suo libro I cronòfagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo, descrive un sistema mosso da un unico discorso ontologico: «Che la redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non-essere».

Pur tuttavia, la produzione sistematica di merci e di servizi è gravata sin dapprincipio da un’irrisolvibile contraddizione strutturale: da una parte necessita dell’assorbimento in massa d’energia umana mediante l’impiego di forza-lavoro; dall’altra parte però la spietata legge della concorrenza fra le aziende comporta l’aumento permanente della produttività e perciò la forza-umana viene tendenzialmente sostituita in vista d’un maggiore efficientamento tecnologico. Per la prima volta nella storia il lavoro che viene soppresso con la razionalizzazione dell’apparato produttivo è maggiore di quello che può essere riassorbito in virtù dell’espansione dei mercati.

Di conseguenza la razionalità aziendale, intrisa di darwinismo sociale, esige che vi siano masse di disoccupati impossibilitate a riprodurre la loro vita all’interno del sistema e costantemente pronte a s-vendere la propria forza-lavoro; al contempo, è necessario che un numero sempre più esiguo di occupati venga ricattato e aizzato l’uno contro l’altro al fine di fornire prestazioni lavorative sempre più efficienti. Rebus sic stantibus il lavoro oggettivato e totalizzante non è sinonimo di un’attività umana autodeterminata, bensì è il giogo d’un destino sociale infelice: l’attività di chi ha perso la propria libertà.

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(blackblog francosenia)

«Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra, ecc. Soltanto pochi di questi modi sono proibiti dallo Stato». (B. Brecht)

La sincronizzazione economico-funzionale combinata all’integrale automatizzazione tecnologica viene subita dalla psiche delle persone al costo d’una disintegrazione umana e sociale. Pertanto, tale tecno-barbarie ha fatto sì che l’enorme ricchezza prodotta si trasformasse in miseria di massa e in conflitti militari, che la solidarietà venisse trasformata in concorrenza feroce, che la potenza della conoscenza fosse dissociata dal benessere sociale e che l’interazione essere umano-ambiente scatenasse disastri ecologici irreversibili. Il capitalismo finanziario è, difatti, l’affare redditizio e l’egemonia globale d’una sparuta minoranza.

In conclusione, il capitalismo cronofago annienta ogni forma d’intermittenza, ogni tempo del pensiero, estirpa il diritto di sognare e di generare prospettive alternative e di solidarietà. In nome della coazione al progresso impone un costante stato di disumanizzante transizione. Il suo trionfo totalizzante è tanto più radicale in quanto crea una percezione normalizzata degli eventi, una percezione che non si presenta con i tratti ideologici d’una determinata ragione economica, bensì come la natura stessa del mondo, come l’essenza immutabile dell’umanità. Cionondimeno, urge una trasformazione rivoluzionaria con lo scopo di creare una contro-società costituita da nuove forme di socialità, produzione e riproduzione della vita al di là del «lavoro morto» e della visione mortifera e oppressiva del capitalismo finanziario.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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