Karl Marx: Lavoro e Libertà nell’età della religione capitalista
Karl Marx (Wired)

Il lavoro dovrebbe essere, agli occhi di Marx, manifestazione di libertà, e cioè realizzazione del soggetto attraverso una libertà reale. In tutte le forme storiche succedutesi, il lavoro ha sempre avuto un carattere repellente e alienante, si è svolto in un’attività determinata dall’esterno e coercitivamente (lavoro schiavistico, servile, salariato). Non si sono mai create le condizioni soggettive e oggettive che permettessero, attraverso il lavoro, l’auto-realizzazione dell’individuo. Marx ha auspicato un superamento (Aufheben) del lavoro determinato da una necessità eteronoma ed etero-finalistica. Infatti Marx ha distinto due tipologie d’attività: attività determinata dallo scopo e attività intenzionale. La prima forma di attività è soggetta a criteri di efficienza/produttività e del profitto: l’uomo usa il proprio corpo e la propria mente come mezzi o strumenti (attività strumentale) al fine di produrre merci o servizi. O meglio, l’uomo si riduce a uno strumento, compiendo in tal modo un atto di auto-estraneazione. Dunque la produzione strumentale è alienata. La seconda forma di attività è frutto del desiderio e viene svolta unicamente per se stessa; vale a dire, l’attività stessa è lo scopo di colui che agisce. Non costituisce un mezzo per un fine; non è percepita in quanto strumento, strumento per conseguire un intento al di fuori di essa. Essendo fine in se stessa, tale attività non è sottoposta a criteri di efficienza/produttività e può essere effettuata a piacere (attività libera/autonoma).

Lavoro alienato e attività artistica

Il capitalismo ha posto il lavoro al di sopra dell’uomo perché ha posto il profitto al di sopra del lavoro. Marx aveva ben capito che dietro la merce — che gli economisti borghesi volevano far passare come un prodotto neutro, frutto di una libera contrattazione — c’era un rapporto sociale basato sullo sfruttamento. Il lavoro alienato, privo del carattere della socialità, si ha nel momento stesso in cui l’uomo diventa macchina umana a fianco di altre macchine fisiche, e nel momento in cui il bene da lui prodotto è subalterno all’universale scambiabilità commerciale. Infatti nel capitalismo un bene diventa sociale solo quando si trasforma in merce, cioè quando viene scambiato per denaro sul mercato. Se per un qualunque motivo (sovrapproduzione o concorrenza), non potesse esserci lo scambio, il bene resterebbe invenduto e, benché frutto di un collettivo di produttori aziendali, esso non avrebbe alcun carattere di socialità; il che dimostra, in maniera evidente, come lo scambio serva per realizzare un’attività anti-sociale per antonomasia: l’accumulo privato di capitali.

L’uomo schiavo del lavoro è rinchiuso in un processo sofisticato di sfruttamento. Nella società capitalistica da un lato si garantisce la libertà formale (giuridica), dall’altro si nega ogni libertà sociale, se non si dispone di adeguate proprietà o ricchezze. La prospettiva di Marx si configura come una soppressione pura e semplice della divisione del lavoro, tanto all’interno della fabbrica quanto nella società. Mentre là dove il lavoro è diviso, ciascuno ha una sfera d’attività determinata ed esclusiva, che gli viene imposta e alla quale non può sfuggire. Nella società dove avverrebbe il superamento del lavoro alienato e delle logiche del plus-valore, ciascuno non avrebbe più una sfera di attività esclusiva, ma potrebbe perfezionarsi in qualsiasi attività, cioè in tutte le attività. Una volta soppressi i rapporti capitalistici, la libera pianificazione consapevole dei processi produttivi da parte dei lavoratori associati permetterebbe di superare ogni divisione del lavoro e qualunque codice autoritario. Marx formula, in definitiva, l’ipotesi di un superamento storico del lavoro in quanto attività umana, chiusa entro la sfera della produzione materiale, e del passaggio al lavoro libero inteso come auto-realizzazione individuale e primo bisogno della vita.

Scrive Marx:

«La possibilità di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. […]La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità.»

Produrre in modo universale, produrre liberi dal bisogno della sussistenza, produrre e riprodurre l’intera natura, porsi liberamente di fronte al prodotto poiché questo è manifestazione della coscienza umana, produrre secondo la misura di ogni specie e secondo le leggi della bellezza: ecco l’essenza del lavoro in quanto fare totale, in quanto oggettivazione universale e libera dell’essenza umana; non imposta da scopi esteriori. Per Marx il modello di tale nuova attività produttiva, non più identificabile col lavoro alienato, è l’attività artistica. Quando si scrive una poesia, si dipinge un quadro o si scolpisce una statua, queste attività vengono svolte come fini a se stesse. L’attività dell’artista non è un mezzo per un fine, bensì un percorso verso uno scopo che ha in sé il proprio fine. In altri termini, l’attività stessa costituisce un obiettivo o uno scopo non meno dell’oggetto artistico che produce. C’è armonia tra attività e compimento della stessa. Tra la realizzazione dell’opera d’arte e dell’artista.

Età della religione capitalista

Il capitalismo è una religione cultuale. Tutto in esso ha significato solo in riferimento al compimento di un culto; e tale culto è permanente. Non è possibile distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, vi è un unico e ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto. Il capitalismo è una religione fondata interamente sulla fede, attraverso esso si crede nel puro fatto di credere, nel puro credito; ossia il denaro. Il credito ha sostituito Dio. Il capitalismo è essenzialmente infinito e, proprio per questo, incessantemente in preda a una crisi, sempre in atto di finire. Come non può avere una vera fine, così il capitalismo non conosce un principio; è intimamente anarchico e quindi sempre in atto di rigenerarsi. Marx ha auspicato il crollo del capitalismo mettendone in evidenza le palesi contraddizioni.

«La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi e oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.»

La gente conserva tenacemente la propria fede nel capitalismo, nel lavoro dis-umanizzante e nel credito/debito. Il tempo è il reale valore inalienabile e vitale, ma lo si sta svalutando in virtù del consumo superfluo e della libertà di lasciarsi sfruttare. Forse attraverso la lotta consapevole si vedranno segni di un ateismo incipiente rispetto al Dio-credito. Forse si apriranno nuovi spazi dove poter vivere e pensare. Ognuno secondo le proprie capacità; ognuno secondo i propri bisogni.

 Gianmario Sabini

Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Adoro Marx, Engels, Lenin, Nietzsche, Beethoven, Stravinskij, Carmelo Bene, John Bonham, i Black Sabbath, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, il moralismo, lo psicologismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, Calcutta, i Thegiornalisti e Achille Lauro. Abito e studio a Bologna, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

1 commento

  1. C’è da aggiungere un “piccolissimo” dettaglio: per Marx, come per il marxismo conseguente, il Regno della Libertà “può fiorire SOLO sulla base di quel Regno della Necessità”. Nella frase conclusiva di questo passo del Capitale (Das Kapital), Marx mette bene in guardia il lettore: non ci si faccia illusioni che il regno della libertà sia un regime opposto a quello della necessità; esso altro non è che lo SVILUPPO di quest’ultimo, ed è pur sempre un regno della necessità. Si tratta, cioè, di un prodotto, di una diversità organica allo stesso regno della necessità e per nulla della sua negazione. Non a caso Marx ed Engels ripresero quetso tema da Hegel, che ben aveva carpito il rapporto tra libertà e necessità. Nell’accezione esclusiva di questa “fioritura” del regno della libertà sullo stesso regno della necessità sta la legge fondamentale: il regno di necessità è la base, la costituzione del regno di libertà che ESCLUSIVAMENTE su questo esso può realizzarsi. Insomma, per Marx, come per tutto il marxismo, non c’è per nulla questione di “uscita dal lavoro”! Lo stesso concetto è infatti del tutto antitetico rispetto alle tesi socialiste financo utopistiche. Che sia “tout-court” o di altro tipo, l’uscita dal lavoro è un concetto classista in generale e capitalista in particolare. Ciò che bisognerebbe assumere a coscienza è che c’è molto più socialismo nell’obbligo del lavoro (Marx, Das Kapital Vol. I) che non nel contro-lavoro di smithiana memoria.

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