Il 14 maggio 2025, in un contesto carico di simbolismo e tensione, si è tenuto a Riyadh un incontro che difficilmente sarà dimenticato negli annali della diplomazia contemporanea: il faccia a faccia tra l’ex presidente statunitense Donald Trump e Ahmed al-Sharaa, il nuovo uomo forte di Damasco. L’incontro, durato ben 33 minuti – e primo del genere da un quarto di secolo tra un presidente americano e un leader siriano – segna una svolta non solo nei rapporti bilaterali tra Washington e Damasco, ma anche nel linguaggio della comunicazione politica globale. In un mondo in cui la comunicazione strategica assume un’importanza crescente, la gestualità, i luoghi, i tempi e persino i sorrisi diventano strumenti di politica estera.
La scelta di Riyadh come palcoscenico non è casuale. L’Arabia Saudita si è ritagliata un ruolo di broker geopolitico regionale, capace di ospitare leader nemici e tradizionali avversari in un clima di negoziazione tollerante, ma ben coreografato. Proprio in questa cornice, Donald Trump ha messo in atto una delle sue più emblematiche performance diplomatiche. Uomo di spettacolo prima ancora che uomo di Stato, Trump ha costruito la sua identità pubblica sull’arte della contrattazione messa in scena come show. La politica estera, nel suo stile, diventa una versione estesa della sua celebre “The Art of the Deal“: posture, strette di mano, battute sibilline, imposizione narrativa.
Ahmed al-Sharaa, dal canto suo, non si presenta come semplice spettatore. Ex comandante jihadista, conosciuto col nome di battaglia “Al Jolani”, oggi al-Sharaa è il presidente ad interim della Siria, catapultato al centro di un complesso scacchiere internazionale. Il suo passato, sebbene controverso, è ora parte integrante di una nuova narrazione: quella del leader redento, pragmatico, deciso a traghettare il proprio paese fuori dal caos e dentro un fragile ordine geopolitico regionale.
La Siria dopo Assad: Ahmed al-Sharaa e la costruzione di una nuova legittimità
La figura di Ahmed al-Sharaa rappresenta una delle più curiose metamorfosi del panorama mediorientale recente. Conosciuto in passato con il nome di battaglia “Al Jolani”, al-Sharaa è stato un comandante jihadista, protagonista nella lunga e cruenta lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Dopo anni di conflitti intestini e devastazioni, la caduta del regime baathista ha lasciato un vuoto di potere colmato proprio da lui. Eletto presidente ad interim nel gennaio 2025, al-Sharaa ha dovuto rinegoziare non solo la sua immagine pubblica, ma anche il suo ruolo politico, distaccandosi dall’estremismo e cercando di farsi garante di un nuovo ordine interno.
Il fatto che al-Sharaa sia cittadino saudita ha favorito un riorientamento dell’asse siriano verso Riyadh, con evidenti implicazioni regionali. La sua apertura verso gli Stati Uniti è strategica: per ricostruire un Paese distrutto e legittimare il proprio potere, ha bisogno della fine delle sanzioni occidentali, di riconoscimento internazionale e di una narrativa che lo distacchi dal passato. Durante l’incontro con Trump, ha accolto con favore cinque richieste fondamentali, formulate con chiarezza dal presidente statunitense come condizione per una progressiva normalizzazione dei rapporti:
- La firma degli Accordi di Abramo, con il riconoscimento ufficiale di Israele da parte della Siria.
- L’espulsione di tutti i combattenti stranieri dal territorio siriano, inclusi miliziani legati a reti jihadiste internazionali.
- La responsabilità piena dei centri di detenzione dell’ISIS nel nord-est del Paese, oggi parzialmente sotto controllo curdo.
- L’impegno a prevenire la ricomparsa dello Stato Islamico, attraverso una cooperazione operativa con gli Stati Uniti e i loro alleati.
- L’espulsione dei gruppi armati palestinesi, ritenuti ostili alla sicurezza israeliana e accusati di fomentare instabilità nella regione. adesione agli Accordi di Abramo, espulsione dei combattenti stranieri, responsabilità sui centri di detenzione ISIS, cooperazione contro il ritorno dello Stato Islamico, espulsione dei gruppi armati palestinesi.
Tali concessioni delineano un nuovo approccio della leadership siriana, più flessibile e orientato al compromesso. Per quanto discutibile dal punto di vista storico e morale, al-Sharaa sta costruendo una narrativa di “rinascita patriottica” fondata sulla sicurezza, sull’allontanamento dell’influenza iraniana e sull’avvicinamento a Israele, un tempo nemico ideologico.
Il percorso di al-Sharaa non è privo di rischi. La sua credibilità interna potrebbe essere minata dalle stesse concessioni che lo rendono accettabile all’Occidente. Tuttavia, la scelta di puntare sulla realpolitik sembra essere la più pragmatica in una fase in cui la Siria necessita di alleati più che di ideologia. Sul piano internazionale, l’immagine di un leader post-islamista, disposto a negoziare e ad allearsi con ex nemici, può diventare un asset strategico. In tale contesto, la “conversione” di al-Sharaa non va letta solo come un atto opportunistico, ma come il segnale di una nuova fase del conflitto siriano, meno ideologica e più strutturata.
La performance di Trump: politica estera come reality show geopolitico
Donald Trump ha trasformato la politica estera in una disciplina performativa, dove ogni gesto è pensato per produrre un impatto mediatico immediato. Il summit di Riyadh non ha fatto eccezione. L’immagine della stretta di mano con al-Sharaa, amplificata da decine di fotografi, è diventata il simbolo di una nuova strategia comunicativa che unisce pressione diplomatica e spettacolarizzazione del potere.
Trump conosce bene il linguaggio dell’inquadratura, del messaggio semplice e della polarizzazione narrativa: le sue cinque richieste a Damasco non sono solo proposte strategiche, ma anche slogan destinati a risuonare nell’elettorato americano e a stimolare reazioni sui media internazionali. “Riconoscere Israele”, “cacciare i terroristi”, “prevenire il ritorno dell’ISIS”: ognuna di queste frasi funziona come la battuta di copione in un dibattito mediatico, più che come contenuto tecnico.
Tuttavia, oltre alla retorica, restano sul tavolo implicazioni future complesse. La legittimazione internazionale di un leader ex-jihadista potrebbe ridisegnare il modo in cui la comunità internazionale valuta le transizioni di potere nei regimi post-autoritari. Al contempo, la revoca delle sanzioni e il possibile reintegro della Siria nei circuiti multilaterali pongono interrogativi sulla coerenza dell’ordine liberale internazionale, dove i principi vengono spesso sacrificati alla stabilità apparente.
L’approccio di Trump, più pragmatico che sistemico, riflette una visione utilitaristica delle relazioni internazionali. Più che un piano organico, la sua strategia appare come una sequenza di gesti ad alto impatto simbolico, in grado di guadagnare consenso interno ma di lasciare vuoti di governance una volta spenti i riflettori. La teatralità dell’incontro, che punta molto sulla comunicazione visiva, sebbene efficace dal punto di vista comunicativo, non garantisce continuità né stabilità nel lungo periodo. Non è solo diplomazia, è storytelling con effetti geopolitici ancora tutti da verificare.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Israele, pur accogliendo con favore la promessa di riconoscimento da parte siriana, mantiene un atteggiamento prudente: la memoria del passato conflittuale e il dubbio sulla reale capacità di controllo di al-Sharaa restano forti. Secondo quanto riportato dal Times, lo Stato ebraico ha espresso preoccupazioni sulla legittimazione di una figura ex jihadista e sulla possibilità che la Siria, con il sostegno saudita, possa avviare un riarmo strategico non allineato agli interessi israeliani. L’Iran, dal canto suo, ha condannato l’incontro come una provocazione e una minaccia diretta alla propria influenza in Siria, soprattutto dopo le dichiarazioni esplicite di al-Sharaa contro la presenza iraniana nel Paese.
A rendere il quadro ancora più significativo è l’annuncio, quasi simultaneo, di un nuovo accordo sulle armi tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. Secondo fonti diplomatiche, l’intesa prevede la vendita di sistemi avanzati di difesa e sorveglianza per un valore di circa 142 miliardi di dollari. L’accordo rappresenta non solo un consolidamento economico-militare, ma anche un chiaro segnale strategico: Trump sta puntando apertamente su Riyadh come nuovo perno della sua politica estera in Medio Oriente, scommettendo su una nuova architettura di sicurezza che passa attraverso alleanze selettive e transazioni ad alto impatto.
Il summit ha evidenziato due realtà spesso trascurate nel dibattito mainstream: la necessità dell’Occidente di un interlocutore stabile in Siria e la volontà di quest’ultimo di sopravvivere politicamente attraverso il compromesso. Trump, da abile comunicatore, ha saputo intercettare questo equilibrio instabile e trasformarlo in una narrazione utile per i suoi obiettivi personali, ma non priva di effetti sistemici.
La figura di al-Sharaa, controversa e trasformista, si presta perfettamente a questo gioco: da leader jihadista a partner degli Stati Uniti nel giro di un decennio. Che si tratti di realpolitik o di opportunismo, la sua ascesa è il sintomo di un mondo multipolare sempre più fluido, dove la legittimità non è più una questione morale, ma una funzione della comunicazione efficace e delle alleanze contingenti.
La storia, oggi, si scrive non solo nei trattati, ma nei gesti e nei tweet. L’incontro tra Trump e al-Sharaa è l’emblema di una diplomazia che ha abbandonato la sobrietà dei corridoi per abbracciare il palcoscenico globale. E se il prezzo è l’ambiguità, il guadagno è un nuovo linguaggio geopolitico che parla direttamente alle masse, alle camere dei bottoni e agli archivi del futuro.
In definitiva, quella che sembra una mossa isolata potrebbe in realtà rappresentare l’inizio di una nuova fase delle relazioni internazionali mediorientali, in cui la comunicazione, la percezione e l’immagine pubblica sono tanto decisive quanto le forze armate e i dossier diplomatici. Una fase in cui, come dimostrato da Trump e al-Sharaa, l’apparenza non solo conta: governa.
Donatello D’Andrea