Ora più che mai c'è bisogno dell'Europa
Fonte immagine: FMT

C’era da aspettarselo. I colloqui in corso fra Usa e Russia sulla fine della guerra in Ucraina, e la loro architettura “diplomatica”, non sono una sorpresa. Trump e Putin senza Europa e soprattutto senza il diretto interessato, il presidente ucraino Zelensky. Uno smacco nei confronti dell’attivismo continentale, da sempre in prima linea a sostegno della causa di Kiev, e una batosta morale, d’immagine e materiale per un Paese martoriato dalla guerra e che viene totalmente escluso da trattative che lo interessano direttamente.

L’unico leader europeo a intuire cosa stesse succedendo è stato Emmanuel Macron, presidente francese che, in un disperato tentativo di salvare l’unità europea dopo l’umiliazione subita, ha convocato un vertice a Parigi per nascondere ciò che lo smacco ha reso ancor più evidente: l’Europa non è unita e di fronte alla prepotenza americana si è sfaldata. Al centro della riunione “informale” – informale per non offendere proprio Washington, come dimostra la telefonata preventiva del Presidente francese al suo omologo a stelle e strisce – anche l’eventualità di inviare truppe in Ucraina. Francia e Regno Unito d’accordo, Italia, Germania e Polonia no. Ha pesato anche, come ha fatto notare il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, l’assenza dei Paesi baltici, direttamente interessati per questioni di confine.

Precipitosamente, Macron ha convocato un’altra riunione il giorno successivo, scontrandosi ancora una volta – come dire, errare humanum est, perseverare autem diabolicum – con la realtà dei fatti. L’Unione Europea, in questo momento, non è altro che un’espressione geografica e di fronte ad atti di forza, sensati o meno, si scioglie come neve al sole. C’è bisogno dell’Europa, certo, ma di quale Europa?

Il riavvicinamento Trump-Putin non passa da Bruxelles

All’inizio del conflitto, di fronte ai primi tentativi di dialogo mediati dall’Unione Europea, si era parlato di un coinvolgimento diretto di Bruxelles al tavolo della pace. Un ruolo di primo piano, che avrebbe rafforzato la posizione politica della diplomazia continentale. A tre anni di distanza, le coordinate geografiche della pace si sono spostate a Riad, come ampiamente previsto da chiunque avesse notato l’attivismo guardingo delle monarchie del Golfo.

Martedì 18 febbraio, rappresentanti di alto livello di Stati Uniti e Russia si sono incontrati in Arabia Saudita per dare avvio ai negoziati che metteranno fine alla guerra in Ucraina e per normalizzare le loro relazioni che, dal febbraio 2022 si erano logorate a tal punto che i due presidenti – all’epoca Joe Biden – si scambiavano invettive quasi quotidianamente. L’organizzazione dell’incontro è stata efficacemente tenuta segreta fino a qualche giorno prima, anche se le ripetute conversazioni telefoniche di Trump con Putin facevano presagire che di lì a breve qualcosa sarebbe accaduto.

Si tratta del primo incontro che vede impegnati al tavolo alti rappresentanti delle due potenze dall’inizio del conflitto con il chiaro obiettivo di perseguire un riavvicinamento. Fino a questo momento gli Stati Uniti si erano impegnati, assieme all’Unione Europea, nel sostegno militare ed economico all’Ucraina di Zelensky, la quale non è stata invitata al negoziato. Anche nei documenti prodotti dopo l’incontro l’Ucraina non viene menzionata.

Il primo risultato delle interlocuzioni è stato un accordo per formare delle delegazioni che si occuperanno dei negoziati. Ma non finisce qui. A quel tavolo si è discusso anche di futuri rapporti commerciali che poco avranno a che vedere con Kiev come, ad esempio, le “grandi opportunità” per gli Stati Uniti nel settore del gas e del petrolio una volta terminato il conflitto. Un concetto ribadito successivamente da Marco Rubio, segretario di stato americano, che ha lodato il ristabilimento dei rapporti con la Russia.

Donald Trump ha tenuto una conferenza stampa in cui ha accusato il presidente ucraino di aver causato la guerra, accusandolo successivamente di scarsa popolarità, di essere “un dittatore e un comico mediocre”. Attacchi che Kiev, ovviamente, ha respinto, catalogandoli come “propaganda russa”. Al di là della natura e della (scarsa) veridicità di tali asserzioni, il cambio di passo è chiaro: gli Stati Uniti hanno deciso di far concludere il conflitto, salendo in cattedra ed esercitando tutta la loro leadership politica, diplomatica e, soprattutto, militare in quanto primi finanziatori in questo senso della resistenza di Kiev.

Tale azione, quella di salire in cattedra, ha colto di sorpresa anche gli europei, i cui leader appaiono divisi sul da farsi a causa di divergenze politiche, di metodo e di alleanze. Da Giorgia Meloni, percepita come la più vicina alle posizioni di Donald Trump a Emmanuel Macron e Olaf Scholz, (ormai ex) cancelliere tedesco, i quali pur divergendo sull’opportunità di spedire corpi militari di pace in terra ucraina, hanno duramente criticato l’esclusione europea e di Kiev dal primo vertice di pace a Riad. Critiche che non scalfiscono di un millimetro, però, il prendere forma di una pax trumpiana che sorride più alla Russia di Putin che a Zelensky.

C’è bisogno di un’Europa che, unita, non esiste

Il chiacchiericcio ha prodotto qualche conseguenza, ma che non va sopravvalutata. Il primo ministro inglese, Starmer, e Macron sono stati convocati separatamente alla Casa Bianca per discutere della pace, ma lo smacco diplomatico resta. Anche tale convocazione risponde perfettamente alla concezione dell’Europa che fa capo alla visione strategica del presidente: non esiste un’Europa unita ma solo gli stati. E da una posizione di forza come quella statunitense è molto più facile esercitare influenza e pressione nei confronti della singola nazione.

Per Donald Trump, la pace non può e non deve passare da Bruxelles. Per la Russia vale lo stesso corollario, ovviamente. Putin ha sempre guardato con simpatia il suo omologo americano, il quale segue una logica più che politica, imprenditoriale. Almeno a giudicare dagli accordi preliminari – o presunti tali – che vedrebbero pochi benefici tangibili per Washington rispetto a quelli russi. Dalla fine della “politica della porta aperta” della NATO, al trasferimento agli europei della responsabilità sulla sicurezza ucraina e il ridimensionamento del ruolo americano in Europa. Senza contare il voler forzare Kiev a riconoscere le conquiste di Mosca, la neutralità e la smilitarizzazione dell’Ucraina.

Nonostante l’apparente inesistenza di un disegno strategico americano dietro a questa scelta, si potrebbe comunque ipotizzare che la rapida conclusione del conflitto permetterebbe agli americani di concentrarsi completamente sull’Indo-Pacifico, accontentando la Russia nel tentativo di disturbare il consolidamento dell’amicizia senza limiti – che vede la Russia subalterna a Pechino dallo scoppio del conflitto, a causa delle difficoltà economiche di Mosca -, nonché un messaggio all’Europa, lasciata indifesa di fronte alla legittimazione americana dell’imperialismo russo, e di fronte a tutte le contraddizioni di un atlantismo vissuto come totale subalternità militare agli Stati Uniti. Se nel secondo caso l’obiettivo si può dire raggiunto, il primo resta ancora difficile: non sarà un disgelo parziale e temporaneo a scalfire il legame esistente tra Cina e Russia che condividono qualcosa di ben più profondo degli accordi commerciali: una visione dell’ordine internazionale non più Usa-centrica.

Dinanzi al dinamismo americano e al prendere forma del disegno russo, l’Europa resta immobile. Gli unici mugugni arrivano da Parigi, custode e ultima interprete di una concezione della politica internazionale come protagonismo e movimento, interventismo e militarismo. Ma il resto del consesso continentale ha deciso di restare sordo e cieco, come ha ricordato anche Mario Draghi in una delle sue rarissime “uscite dagli schemi” in cui ha condensato tutto ciò che non va in questa Europa, cioè la totale assenza di cooperazione tra gli stati. L’ex presidente del consiglio si riferiva soprattutto alle condizioni economiche, ma il suo discorso è versatile e può applicarsi a ogni fattispecie, anche militare e diplomatica.

Mentre i leader europei boccheggiano, le istituzioni europee prosperano nell’immobilismo. All’incontro di Parigi e al successivo vertice allargato, la grande assente è stata la Commissione europea, la cui voce è stata coperta dai gracchianti mugugni delle piccole e indecise nazioni europee, più impegnate a preservare le proprie rendite di posizione, a furor di popolo (o di voti), che a cercare una soluzione univoca. La litigiosità e le divisioni si scontrano con una realtà dei fatti che costringe, costringerà, gli europei a fare i conti: senza unità non sarà possibile incidere in modo credibile su alcun dossier presente e futuro.

Il decisionismo di Donald Trump, di cui ha beneficiato Vladimir Putin, ha avuto il merito di scoprire le carte in tavola che avevano il sapore del bluff. Senza l’apporto americano, saranno tempi duri per un’Europa che da sempre ha avuto il sentore di dovercela fare da sola ma la cui classe dirigente ha sempre preferito nascondere la polvere sotto al tappeto. Fino ad oggi. L’unico residuo di unità è la vanità francese, la cui unica virtù è stata quella di ricordare ai più che attualmente l’unità dell’Europa sia soltanto una questione geografica e non politica.

C’è bisogno dell’Europa, ma di quale Europa? Non certo di un’Europa ridotta a un’espressione geografica, incapace di un cambio di passo nel dialogo con l’alleato americano e con il resto del mondo e soprattutto inconsapevole che il sonno dogmatico nel quale era assopita fino al febbraio 2022 rischia di diventare un sonno eterno, privo della consapevolezza necessaria che occorrano visioni nuove e modalità nuove per approcciarsi alle nuove sfide, nessuna delle quali da affrontare in “solitaria”.

Donatello D’Andrea

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