
L’impatto negativo delle attività umane sulla natura non accenna a diminuire, anzi. Mentre la politica globale continua a ignorare le catastrofiche conseguenze della crisi climatica, quadruplicando i finanziamenti esteri per i combustibili fossili, l’ecosistema Terra reagisce colpendo quel che resta di un mondo che si avvia verso l’estinzione di massa. In realtà il termine “avviarsi” risulta essere errato dato che il crollo delle popolazioni vegetali e animali selvatici è già in corso da tempo. A confermare ciò i dati del “Living Planet Index” (LPI) della Zoological Society of London, dai quali il WWF ha ricavato il “Living Planet Report” (LPR), uno dei rapporti più allarmanti degli ultimi anni.
Calo degli animali selvatici: numeri e cause
Dal 1826, anno della sua fondazione, la società accademica Zoological Society of London (ZSL) si occupa dello studio e della salvaguardia della fauna selvatica nei luoghi in cui quest’ultima è fortemente minacciata. Dal 1970 al 2020, le 35.000 popolazioni facenti parte di 5.495 specie di vertebrati prese in esame hanno subito un calo medio del 73%. Gli ecosistemi più colpiti sono stati quelli acquatici con una diminuzione dell’85%, seguiti da quelli terrestri e quelli marini, i quali hanno perso rispettivamente il 69% e il 56% della popolazione animale.
La causa principale di questa drammatica diminuzione è da attribuirsi al degrado degli habitat naturali, dovuto principalmente alle pratiche legate alla produzione di cibo. All’impatto dei nostri sitemi alimentari si aggiungono altri fattori quali l’eccessivo sfruttamento delle terre e la diffusione senza controllo delle specie invasive e patologie. Anche il cambiamento climatico fa la sua parte, soprattutto in America Latina, zona nella quale la diminuzione media degli animali selvatici sale addirittura al 95%.
Secondo Matthew Gould, amministratore delegato della ZSL, «Siamo pericolosamente vicini a punti di non ritorno per la perdita di natura e per il cambiamento climatico». Con il termine tipping point (punto di non ritorno) si indica un cambiamento potenzialmente irreversibile di un determinato ecosistema. La drastica decrescita degli animali selvatici può causare gravissimi danni agli ecosistemi naturali, i quali forniscono numerosi servizi ecosistemici alla specie umana (acqua, aria pulita, terreni sani etc.). I punti di non ritorno globali, (deperimento della foresta amazzonica, sbiancamento delle barriere coralline, crollo delle calotte polari etc.) potrebbero provocare conseguenze allarmanti anche per l’essere umano, influendo negativamente sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza.
Il Living Planet Index «soffre di diversi problemi matematici e statistici, che portano a una distorsione verso un’apparente diminuzione anche per popolazioni bilanciate». Benché i critici di questo report non concordino sull’esattezza dei dati alla base dei calcoli della Zoological Society of London, riconoscono che il crollo della popolazione globale di animali selvatici è una realtà innegabile. Le ricerche dello IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) lo confermano. Secondo la “Red List“, il 41% degli anfibi, il 26% dei mammiferi e il 34% delle conifere è a rischio estinzione.
Nonostante le drammatiche notizie, le speranze un un cambiamento e di un’inversione di rotta esistono ancora. Le conferenze su clima e biodiversità che si terranno tra ottobre e novembre potranno e dovranno essere occasioni da non sprecare. Occorrono necessariamente azioni drastiche atte all’adozione di piani strategici nazionali e internazionali per la salvaguardia e il ripristino degli ecosistemi e della fauna selvatica.
Agire in tal senso funziona. Lo dimostrano le buone notizie relative alla stabilizzazione e alla crescita di alcune specie selvatiche. Grazie alle azioni di conservazione infatti, i gorilla di montagna sono aumentati del 3% nel periodo 2010-2010. Anche il bisonte europeo è tornato a ripopolare le zone dell’Europa centrale. Piccoli successi ancora insufficienti, ma che indicano che un cambio di rotta è possibile e necessario.
Marco Pisano