Cambiamenti climatici social network ambiente

Non tutti i finali dei libri offrono scenari rassicuranti e luminosi. La raccolta di saggi incentrati sul clima “La fine della fine della terra” di Jonathan Franzen lascia al lettore un mix di ansia, fretta e rabbia (ammesso che al lettore interessi delle sorti del pianeta). In un’epoca in cui, grazie ai social network ogni «micronarrazione» personale viene condivisa e amplificata in rete, Franzen sceglie il tempo della riflessione e dunque della lentezza. Sceglie la forma del saggio perché, come la letteratura, obbliga l’uomo a interrogarsi: in questo caso si problematizza il comportamento dell’umanità verso l’ambiente e i cambiamenti climatici, e la sua ossessione di vivere ormai sui social network . Non troverete nessuna risposta rassicurante tra le sue pagine.

“Scrivere saggi in tempi bui” ossia l’era dei social media: 280 caratteri di Twitter, post su Facebook e stories su Instagram per diffondere qualsiasi tipo di narrazione

La raccolta di saggi di Franzen si apre con uno sguardo al Terzo Millennio e alla invasività dei social network: al giorno d’oggi ogni opinione trova un efficace canale di diffusione e un pubblico consistente. Anche l’argomento del clima, che dovrebbe essere rigorosamente trattato in termini scientifici, cade nelle grinfie dei social network: a Trump basta un tweet per negare che stiamo distruggendo la Terra a furia di deforestazioni, sfruttamento intensivo dei suoli, sistema capitalistico, inquinamento di ogni sorta. Anche il dibattito politico, che si è trasferito in gran parte sui social network, si è polarizzato, tanto che l’autore, che condivide alcune idee con la sinistra, dopo aver espresso il suo scetticismo verso una possibile salvaguardia del clima, è stato additato addirittura come negazionista dei cambiamenti climatici perché non in linea con lo slanciato ottimismo dei progressisti.

In realtà, Franzen nega unicamente che una «coscienziosa élite internazionale» possa davvero fermare gli effetti dell’azione umana sul clima, come lo scioglimento dei ghiacci ai poli oppure la distruzione dell’ambiente, delle specie e dei loro equilibri naturali. Lo stato delle cose dimostra che, a discapito delle buone intenzioni e del tanto gridato slogan “abbiamo ancora dieci anni”, i passi da compiere siano tanti, forse troppi. A cinque anni dalla sottoscrizione degli Accordi di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015, che mirano a contenere entro fine secolo l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°, sembra che non siano state prese delle (auspicabili) misure drastiche. Dal lontano 1992, anno degli Accordi di Rio (meglio conosciuti come Summit della Terra), le emissioni di anidride carbonica sono aumentate. Gli Stati Uniti, ad esempio, che sono il secondo Paese al mondo produttore di gas serra, non hanno ratificato gli Accordi di Parigi. Allora quale impatto possono provocare sul clima gli altri Paesi firmatari dell’accordo? Scrive Franzen:

«È una storia che si può raccontare in meno di centoquaranta caratteri: stiamo prendendo il carbonio sequestrato nel terreno e lo stiamo immettendo nell’atmosfera, e se non la smettiamo siamo fregati. Il lavoro di conservazione, al contrario, è complesso come un romanzo.»

Un viaggio in Antartide, tra birdwatching, ossessione per la fotografia e disinteresse verso i cambiamenti climatici

Oltre a scrivere, Franzen pratica anche birdwatching. Durante l’intero corso della narrazione, questa passione personale si intreccia profondamente con l’attualità: sta stilando un elenco di uccelli avvistati in Ghana quando lo raggiunge la notizia della vittoria elettorale di Trump; alla indescrivibile emozione del viaggio in Antartide, che gli regala la visione del pinguino imperatore, si unisce lo sconforto nel constatare che gli altri passeggeri hanno intrapreso quel viaggio solo per portare a casa fotografie sensazionali, non di certo per vedere coi propri occhi cosa sta succedendo al clima. Ad essere criticata è la cultura delle immagini, di cui si nutrono i social network, che ci porta a scomporre la vita in innumerevoli pezzi poi riproducibili: che senso ha fotografare l’Antartide, se lo stiamo condannando allo scioglimento?

L’esplorazione della Georgia del Sud, dove sopravvive uno tra i più floridi ecosistemi marini del pianeta, ha confermato le preoccupazioni di Franzen: il punto di non ritorno è prossimo e non ci stiamo affatto preparando ad affrontarlo.

Ne sono la prova alcuni sensibili accorgimenti dello scrittore durante il tragitto in nave: gli ospiti vengono esortati “a fare la spesa dal contadino e a sostituire le lampadine a incandescenza con quelle a LED”, insomma ad avere a cuore l’ambiente, ma si trovano su una nave che consuma tredici litri di carburante al minuto. Ma c’è qualcosa di ancora più assurdo: l’espressione “cambiamenti climatici” non viene pronunciata nemmeno per sbaglio e nessuno dei passeggeri sembra avere la stessa sensazione di fine su cui Franzen, al contrario, riflette: quell’ambiente ai confini della Terra rischia di morire, ma evidentemente è più urgente visitarlo per spuntare un’altra voce dalla lista dei viaggi.

Cambiamenti climatici, social network, ambiente: la fine della Terra
Crediti per la foto: Steffen Olsen

La tesi di Franzen è che fin dalla Preistoria, l’uomo sia sempre stato un «assassino universale dell’ambiente». A indicare lo stato di salute di un ambiente è spesso l’avifauna: unici dominatori del mondo mai prodotti dall’evoluzione, insieme alla specie umana, si abituano a forti sbalzi climatici da circa dieci milioni di anni, come il pinguino imperatore che è in grado di riprodursi in posti diversi se il proprio habitat naturale è sottoposto allo scioglimento. Ma ora l’uomo sta cambiando troppo rapidamente il clima perché gli uccelli possano svilupparsi di conseguenza.

Perdite visibili e invisibili a causa dei cambiamenti climatici e dell’uomo

Alcuni saggi del libro riprendono un reportage di Franzen realizzato per National Geographic a proposito di caccia agli uccelli in Egitto e in Albania, dove passa una importante rotta migratoria. Altro viaggio che compie e che lo porta a esaminare lo stato dell’ambiente in base alla popolazione di uccelli è quello sulle isole delle Grandi e delle Piccole Antille. In Giamaica il conservazionismo è bloccato dalla mancanza di istruzione e si preferisce guadagnare soldi piuttosto che salvaguardare l’ambiente e il clima: l’ecoturismo, a cui lavorano ONG e l’ente per il turismo della Giamaica, viene sorpassato dalla costruzione di grandi complessi edilizi con nomi eufemistici (resort “Le Paradis“). Ma oltre a queste evidenti perdite di specie, rapidamente vengono minacciate anche specie non visibili, come gli uccelli marini delle isole Farallon: famosa è la storia delle urie che hanno subito nel corso del tempo la pesca indiscriminata dell’uomo e lo sconvolgimento dell’equilibrio alimentare a causa dei cambiamenti climatici, e sono state salvate soltanto da un tempestivo provvedimento di molti stati americani a metà degli anni Ottanta. Tuttavia,

«Nel resto del mondo si stima che la popolazione totale degli uccelli marini sia crollata del settanta per cento negli ultimi sessant’anni.»

Il riscaldamento globale è probabilmente il problema maggiore che dobbiamo affrontare. Fermarsi a riflettere e poi agire «come se la vostra casa fosse in fiamme», come ammonisce Greta Thunberg, è un dovere dell’intera umanità. Anche se la posizione di Franzen non lascia spazio a procrastinazioni ed escatologie di vario tipo, dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che il mondo sta cambiando in peggio, e piuttosto che negarlo o, ancor più grave, continuare a rimandare, dobbiamo prepararci ad affrontare questo cambiamento, collettivamente e individualmente.

Arianna Saggio

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