Violenza ostetrica: cos'è e come riconoscerla
Fonte: Unsplash

«La violenza ostetrica si basa su due opposti: da un lato l’ipermedicalizzazione e l’interventismo eccessivo, dall’altro la carenza assistenziale». Con queste parole, Alessandra Battisti dell’OVO Italia (Osservatorio Violenza Ostetrica) cerca di dare una definizione a un fenomeno che nel nostro Paese è tanto diffuso quanto, ancora oggi, invisibile.

Quando parliamo di violenza ostetrica facciamo, infatti, riferimento a quell’insieme di trattamenti giudicati invasivi o, al contrario, inesistenti perpetrati dal personale sanitario ai danni della partoriente e del nascituro. Questa può manifestarsi in molteplici forme:

  • violenza verbale, come commenti sarcastici, rimproveri, inviti a non esternare il proprio dolore o la propria sofferenza;
  • violenza fisica, che spesso si traduce in episiotomia (incisione del perineo al fine di facilitare il passaggio del feto), manovra di Kristeller (spinte sul fondo dell’utero per accelerare la fuoriuscita del feto), scollamento delle membrane volta a favorire l’insorgenza del travaglio;
  • condotte mediche omissive, come mancata somministrazione di anestetici o antidolorifici;
  • assenza del consenso della donna o inadeguata informazione;
  • abuso di medicalizzazione che richiede alla partoriente interventi di routine ridondanti;
  • assenza di supporto psico-fisico nel momento successivo al parto.

Le conseguenze della violenza ostetrica

La psicoterapeuta Valeria Fiorenza Perris dichiara come «la violenza ostetrica espone le donne a molteplici fattori di rischio. Infatti, un parto difficoltoso o cruento può avere moltissime conseguenze sulla salute psicofisica della madre, con ripercussioni anche sul benessere del bambino». La gravidanza è per una donna un momento estremamente delicato: nascono in lei nuove consapevolezze; emergono timori e fragilità, ma anche sogni e aspettative. Sancire la chiusura di questo capitolo con un travaglio ed un parto violenti può incidere negativamente su un percorso che dopo nove mesi volge al termine e su quello che, dall’altro lato, sta per cominciare.

Essere vittima di violenza ostetrica aumenta la possibilità di sviluppare una depressione post partum. Questa è caratterizzata da frequenti pianti, senso di inadeguatezza o incapacità di prendersi cura del proprio bambino, irritabilità nei rapporti col prossimo, disturbi del sonno, sentimenti di vergogna scaturiti dall’autocolpevolizzazione di non essere una “buona mamma”. Sono frequenti episodi di ansia o attacchi di panico che, se ignorati, a lungo andare possono scatenare disturbi secondari come bipolarismo o, in casi estremi, abuso di sostanze.

Talvolta, la mancanza di supporto fisico e morale può trasformarsi in episodi drammatici: l’8 gennaio, nel reparto di ginecologia dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, un neonato di tre giorni è stato trovato morto probabilmente soffocato dalla madre che, stremata da un travaglio durato 17 ore, si è addormentata. La donna afferma di aver chiesto aiuto al personale medico, senza però aver mai ricevuto riscontro positivo. Il dolore derivante dalla violenza ostetrica può, dunque, divenire causa del rifiuto verso una maternità tanto desiderata tanto da compromettere eventuali future gravidanze.

Credit: Indafine Doxa-OVO Italia

La questione legale

Nel 2007 in Venezuela viene promulgata la “Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia” (Legge Organica sul Diritto delle donne a una vita libera dalla violenza). Questa definì per la prima volta la violenza ostetrica come «l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario» dunque come la violazione di un diritto umano fondamentale. In Italia, al contrario, non vi è una legge che condanni questa forma di violenza; nel 2016, il deputato Zaccagnini ha avanzato la proposta di legge “Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico” avente come obiettivo quello di individuare innanzitutto i livelli assistenziali ospedalieri che devono essere garantiti alla partoriente e al nascituro, poi di promuovere un’appropriata assistenza alla nascita assicurando la tutela dei diritti delle parti coinvolte garantendo il rispetto verso la dignità personale. Qualche anno più tardi, nel 2019, il Consiglio europeo ha dichiarato la violenza ostetrica e ginecologica come violenza contro le donne inserendola nel quadro normativo della Convenzione di Istanbul.

Giudicata lesiva, la violenza ostetrica può essere ricondotta all’articolo 582 “Lesione personale” e all’articolo 610 “Violenza privata” del Codice Penale. Col primo si fa riferimento alle possibili conseguenze fisiche che potrebbero insorgere nella partoriente a seguito di atteggiamenti omissivi o manovre invasive ritenute non necessarie; il secondo, invece, si riferisce a delle vere e proprie costrizioni da parte del personale sanitario come “l’invito” a sopportare il dolore negando il taglio cesareo o l’anestesia.

Verso un futuro più consapevole

La strada è ancora lunga e tortuosa, ma aver dato un nome ai trattamenti lesivi è un traguardo non di poco conto. L’OMS, che si impegna a tutelare la donna nella sua fragilità e a garantire un’esperienza del parto positiva, consiglia di instaurare una comunicazione efficace e consapevole tra il personale medico ed lə pazienti, mettendo al centro dell’attenzione non solo chi partorisce, ma anche eventuali figure di supporto. È bene infatti informare sul procedimento del travaglio, sui possibili rischi che potrebbero insorgere e sulle possibili procedure che potrebbero essere messe in atto per salvaguardare la vita della stessa e del nascituro. Sarebbe opportuno stabilire un piano comune di gestione del dolore, in modo tale che durante il processo possano adottarsi strategie di sollievo. L’OMS intende promuovere un modello di assistenza di qualità, di fiducia, di rispetto, di consapevolezza. Consapevolezza è la parola chiave affinché venga garantito il diritto della donna di essere libera di scegliere.

Aurora Molinari

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