L’ultima fatica di Charlotte Brontë
Villette è l’ultimo romanzo di Charlotte Brontë. Si tratta di un’opera costruita da una penna ormai matura, che ha plasmato la realtà dell’introversa Lucy Snowe, una ragazza orfana e povera che, dopo un disastro familiare, si trasferisce dall’Inghilterra nella città fittizia di Villette (ricalcata su Bruxelles) per insegnare in un collegio femminile belga.
Se i personaggi ricordano i caratteri de Il Professore (il primo romanzo della Brontë), le atmosfere sono invece sfumate dalle stesse pennellate gotiche di Jane Eyre.
La trama segue la formazione della protagonista e, con estrema lungimiranza, Charlotte costruisce un personaggio femminile estremamente fragile, un’outsider che deve rimettere in sesto la propria vita in un ambiente a lei estraneo e in una società in cui essere donne significa non poter provvedere autonomamente a se stessa.
I rigidi dettami della società ottocentesca imponevano a donne giudiziose e di buona famiglia un rigore tale da tenersi sempre imbrigliate, legate, mai libere di esprimere un’idea o di sfoggiare del colore. Le giornate d’ozio, riempite solo dalle meccaniche faccende casalinghe, erano piene di un pensiero potenzialmente drenante e alienante, da dover domare.
Lucy Snowe trova piacere nel lavoro, nella fatica, nel sentirsi utile: «Quasi non avevo un minuto libero. Era piacevole. Sentii di stare andando avanti; non giacevo più passivamente in preda alla muffa e alla ruggine, ma lucidavo le mie facoltà affinandole, fino a renderle aguzze con l’uso continuo».
L’aver dato una regola alla sregolatezza senza mai interrompere la sua fase di apprendimento le ha permesso di crescere seppur nel suo isolamento sociale: resta ancorata al mondo dell’insegnamento e non accetta alcuna distrazione dai suoi opprimenti schemi.
La donna in Villette: un lusus naturae
Charlotte Brontë, nel delineare il mondo dei precettori, pone l’accento su come una donna che ripudia il matrimonio e che pretende indipendenza non è contemplata e anzi, viene trattata con estrema pena e accondiscendenza. In Villette Mr. Home, padre della viziata discente Polly, racconta Lucy come una donna «abituata a proteggere e mai ad essere protetta», proprio come in società agisce un uomo. Lucy non è etichettabile: è forse una donna di lettere? Ma una intellettuale è, secondo M. Paul (il suo interesse amoroso) un lusus naturae, uno scherzo della natura, una malaugurata disgrazia per la quale non c’è posto né utilità e che nessuno potrebbe mai desiderare, né come moglie, né come serva. Nel sistema delle cose, la bellezza di una donna è esprimibile solo nella sua spendibilità nelle vesti di moglie e madre, mentre la mediocrità del pensiero femminile diventa il cuscino perfetto su cui allietare il buon senso e il pensiero maschili.
Riecheggia il topos di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf: Charlotte Brontë racconta le ragazze dell’istituto di Villette come cattive, viziate e capricciose o terribilmente dolci e fragili. Coloro che esprimevano se stesse erano esageratamente esuberanti, lasciavano straripare quelle emozioni che sarebbero dovute soffocare in limiti e confini prestabiliti: mai apparire passionali, mai appassionate, la buona educazione e l’ipocrisia vincono su qualsiasi dimostrazione di umanità. Solo quando le donne si ritrovano in stanza da sole, con gli uomini ben lontani, riescono a respirare e a entrare in contatto con se stesse, assaporando il loro vero essere.
Le regole di Dio e quelle dell’Uomo
In Villette, Charlotte Brontë dà ampio respiro anche al tema della fede.
Se la testimonianza della misericordia di Dio trova il suo nucleo nel racconto di Padre Silas, centrale per le storie romantiche del romanzo, le donne che non trovano in Lui la grazia si dice assumano qualità demoniache, stregonesche, segnando il loro destino nell’infelicità. La distinzione tra generi è quindi evidente anche nel rapporto tra l’io e la religione.
«Non sono una pagana, non sono dura di cuore: sono cristiana, ma non sono pericolosa, come le hanno detto; non vorrei mai turbare la sua fede.»
Così si scusa Lucy, confrontandosi con padre Silas. Una donna, come anticipato, è capace di persuasione e di risultare pericolosa per il solo fatto di vedere il mondo a modo proprio.
Per tutto il romanzo Charlotte mette alla luce anche un ulteriore punto: Dio è il padre di tutti gli uomini e la regola e i dogmi che dipendono da Egli devono essere pedissequamente seguiti, così come le donne devono seguire gli uomini. Non è un caso che il culto Mariano (dal 431, data del concilio di Efeso) prese piede tra le donne che si sentivano molto più a loro agio nel far riferimento a una figura celeste che avesse fattezze femminili (la Madre di tutti) e non maschili (Dio o suo figlio Gesù, fautori di ogni cosa).
Lucy e le sue discenti si sentono continuamente sotto un riflettore per ciò che indossano (gli abiti di cotone leggero sono da abolire, inadeguati, potrebbero porre l’uomo in tentazione), ciò che leggono (i romanzi sviscerano la natura delle cose, troppo complessa per essere carpita dal sesso debole) e come si pongono verso l’altro (possono essere facilmente etichettate come vuote e affettate o apatiche e inconcludenti). Nelle limitate vite delle donne ottocentesche, Dio non è altro che un ulteriore uomo a cui ubbidire, di cui tener conto, che tarpa loro le ali e le costringe al castigo e al silenzio. Le donne dovevano essere devote e pie, al contrario dei professori che, in qualità di uomini di studio e di scienza, potevano essere emancipati, liberi pensatori, infedeli e quindi atei.
Un’eccezione è M. Emmanuel, professore di lettere collega di Lucy, che nel romanzo è descritto come un uomo che ancora «si faceva il segno della croce come una donna[..] e lo faceva con una fede quasi infantile». M. Emmanuel ha un modus operandi alla stregua di quello di un cavaliere medievale, un nobile dal cuore puro che dal 1300 al 1600 vive la sua graduale decadenza, fino a essere rilegato ai margini della società. La sua estrema eleganza nei modi e la gentilezza che mostra verso il gentil sesso fanno parte di un codice di comportamento che viene ormai deriso da quel ceto borghese arricchitosi durante la seconda rivoluzione industriale. M. Emmanuel ha un ché di effemminato perché proprio come una donna non conosce la vera forza e il vero potere, prega un Dio Padre e Padrone (come se fosse un re feudale) e si inchina ai Suoi voleri.
Charlotte Brontë parlando di religione si concentra ancora una volta sul significato dell’avere potere su qualcosa o su qualcuno. Lucy, alla fine, abbandonerà parte del suo potere cedendo all’amore, così come tutte le altre. Chi può davvero gestire il mondo è ancora una volta chi possiede la forza d’acquisto, la scienza e la superbia e sono uomini che mostrano audacia e sfrontatezza manipolando la propria vita e quella degli altri, barattando la fede in Dio con quella del vile Denaro.
Alessia Sicuro