Più che un Recovery Fund all’Europa serve un defibrillatore
Fonte immagine Giornale di Sicilia

Dopo quattro giorni e tre notti di lunghi negoziati, il Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di Governo dei 27 Paesi UE, è riuscito a concludere un accordo che in molti considerano storico, il più importante degli ultimi vent’anni. Si tratta del Recovery Fund, un programma che, nelle intenzioni, dovrebbe rilanciare l’economia dell’Europa intera nei prossimi anni. Una trattativa estenuante, caratterizzata da un’elevata distanza tra le posizioni e da momenti di tensioni che hanno più volte rischiato di mandare tutto all’aria. Dalle minacce di andarsene dei leader dei Paesi cosiddetti “frugali” alla furia di Macron, passando per le accuse di Giuseppe Conte e per le battutine nervose di Mark Rutte. Questi sono solo alcuni dei particolari trapelati sui giornali, ma fanno ben comprendere l’importanza di ciò che si è discusso.

Il Recovery Fund prevede l’emissione di titoli di Stato europei per finanziare un enorme trasferimento di risorse dai Paesi del Nord a quelli più colpiti dalla pandemia. L’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Francia chiedevano che i fondi venissero garantiti nella forma di sussidi a fondo perduto e senza vincoli sulle modalità con cui verranno spesi. Quelli del Nord (Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Austria e Finlandia) chiedevano che i fondi venissero redistribuiti come prestiti e che l’Europa esercitasse qualche forma di controllo su come sarebbero stati investiti. L’accordo è un compromesso tra queste due posizioni.

L’Italia otterrà 209 miliardi di euro, suddivisi in 82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti. Si tratta della parte più consistente del Recovery Fund, la quale sottolinea anche lo stato di difficoltà in cui versa il Paese, a fronte soprattutto delle ultime stime della Commissione europea che dipingono un quadro poco felice della situazione economica e finanziaria italiana. Politicamente ne esce molto rafforzata, poiché partiva da una posizione di relativa debolezza. Ne esce rafforzato, al contempo, l’asse franco-tedesco e l’immagine di Angela Merkel, capace di chiudere un accordo storico durante il suo semestre di presidenza. Al contempo ne esce indebolita l’Europa, intesa come entità politica unita, tenuta ostaggio da istanze nazionali e da coalizioni opposte in mezzo a cui le istituzioni comunitarie si sono dovute arrendere, mettendo da parte i buoni propositi.

Recovery Fund: le promesse non mantenute

A fronte dell’ambiziosa proposta della Commissione, la discussione generatasi in sede governativa ha portato a tagliare alcuni punti focali, in settori strategici, che avrebbero condizionato fortemente il futuro dell’Europa. Su tutti il progetto Horizon, che finanzia programmi di ricerca di alto livello e che in Italia assume un’importanza maggiore a causa degli scarsi finanziamenti ministeriali riservati all’università. Dai 13,5 miliardi promessi, tale iniziativa disporrà di soli 5 miliardi. Anche InvestEU, che finanzia crescita e occupazione, riceverà 5,6 miliardi invece dei 30 proposti dalla Commissione. Azzerati, invece, i finanziamenti per un progetto di sanità comune, un piano che serviva a evitare altri shock pandemici.

Non è stato introdotto nemmeno un vincolo che obbliga gli Stati del fondo a rispettare lo stato di diritto, il minimo in un’organizzazione che nasce dalle ceneri delle dittature europee. Un assist a quei Paesi dell’est Europa, come Polonia e Ungheria, che giocano con leggi semi-liberticide (censura) e contro i diritti civili e sociali. Al contrario, i Paesi frugali hanno ottenuto un aumento degli sconti sul contributo da versare sul bilancio pluriennale, i famosi rebates. Inoltre, il timido aumento del bilancio promette di rendere vana ogni iniziativa ambiziosa messa in campo dalla Commissione, mentre l’ostilità dei Paesi frugali, i quali sono riusciti a strappare sconti e meccanismi di controllo delle spese, promette di rendere irrespirabile l’aria dei prossimi Consigli europei.

Un progetto troppo ambizioso

Il Recovery Fund è il fulgido esempio di quanto l’architettura europea sia destinata a soccombere sotto i colpi del personalismo politico, degli interessi particolari e dei contraccolpi elettorali. Si tratta di un’istituzione da rifondare, debole e percossa da divisioni lancinanti che hanno messo in discussione la sua esistenza. L’Europa, al contrario dei suoi concorrenti, non ha colto la necessità di adeguarsi alla competizione globale, la quale spinge le grandi potenze a scontrarsi su territori neutrali e a coinvolgere tutto ciò che gli sta attorno.

Il XXI secolo ci ha già mostrato ampiamente che la conformazione geopolitica del globo si basa sulla presenza simultanea di diversi poli di potenza. Cina, Russia, Stati Uniti e India sono soltanto i Paesi più in vista, poiché si presume che nei prossimi anni emergeranno sulla scena internazionale anche Brasile e Turchia. La Cina, dal canto suo, è un Paese che si estende per oltre 9 milioni di kmq e ha un miliardo e mezzo di abitanti, un PIL di 15 trilioni di dollari ed è il più importante esportatore al mondo. La sua valuta è riconosciuta come “moneta di riserva” del Fondo Monetario e gode di diversi primati nel settore tecnologico. Vanta il possesso di un esercito di due milioni e mezzo di uomini, di un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed esercita una forte pressione su diverse aree di influenza, non ultima, appunto l’Europa.

Gli Stati Uniti hanno un’estensione simile e sono la patria di trecento milioni di persone. Hanno un PIL di 20 trilioni di dollari e rappresentano uno dei mercati più ricchi al mondo. Il dollaro è la valuta di riferimento del commercio e della finanza internazionale e, come la Cina, vantano diversi primati nel settore tecnologico. Dispongono del più potente esercito al mondo, di un seggio al Consiglio di Sicurezza e della più imponente rete di alleanze internazionali che permette loro di controllare ogni singolo angolo del mondo.

E l’Europa? L’Europa è un gigante economico ma un nano politico. Alle crisi degli anni passati l’Unione ha reagito con un grave ritardo e con mezzi insufficienti. In apparenza è stata la fattispecie economica a mancare, in realtà è mancata soprattutto una risposta politica, mirata al rilancio dell’intero sistema europeo. L’UE è un sistema federale rovesciato, dove il potere amministrativo nelle mani delle istituzioni è debolissimo. Si tratta di poteri regolatori, marginalmente distribuitivi. Il meccanismo decisionale è policentrico, con la rappresentanza popolare (Parlamento) fortemente schiacciata da Commissione e soprattutto Consiglio. La visione comunitaria è costituita attraverso processi decisionali e negoziali diretti da ben ventisette personalità con interessi, elettorati e poteri differenti ma veto-muniti. In tutto questo si colloca la cronica incapacità degli europei di muoversi al di fuori dei propri confini, a causa della difficoltà di concepire una politica estera comune che, stando all’art. 24 TUE, dovrebbe essere competenza dell’Alto rappresentante ma che un “filtro intergovernativo” intesta ai Consigli e lega al voto unanime.

In questo contesto, dove le due principali potenze globali giocano a RisiKo sul globo terreste, ogni piccola entità nazionale rischia di essere sopraffatta dalla competizione. L’Italia, con i suoi trecentomila kmq, una popolazione di sessanta milioni di individui, un PIL di 2 trilioni di dollari e senza una zona di influenza internazionale, non potrà reggere a lungo il confronto con nessuna potenza. Ecco perché l’Europa unita rappresenta più che una soluzione, una necessità. Si tratta, comunque, di un mero auspicio poiché, nella realtà, il continente è incastrato tra un meccanismo inefficiente e una classe dirigente totalmente inadeguata, con forti problemi di lungimiranza.

L’impressione è che l’Europa abbia forzato troppo la mano, promuovendo nel corso degli anni numerosi allargamenti senza aver ben saldato i rapporti all’interno del nucleo originario. Da semplice unione commerciale, nel corso degli anni ’90 l’Europa ha preteso di diventare qualcosa di più. Lo stadio evolutivo, ora, non interessa più la sola fattispecie economica ma anche quella politico-sociale, trasformando l’integrazione non più in una sintesi mercantilistica ma in un progetto dai fini più nobili e, dunque, incomprensibili al pubblico traviato dagli slogan elettorali.

Se questa diagnosi è giusta, è chiaro che c’è bisogno di un cambiamento non marginale. Dall’incremento delle risorse disponibili, cioè il contrario di quanto proposto dai frugal five, alla capacità di costruire una visione comune dei problemi contro cui l’Europa è chiamata a dover agire (Siria, Libia, Palestina per dirne tre). E per fare questo l’unico modo è rafforzare il centro decisionale europeo. Gli ostacoli ci sono, a partire dall’assetto del sistema politico continentale, dipendente dai processi nazionali, e dalla cronica assenza di una leadership forte in grado di mettere assieme una coalizione di volenterosi.

Il Recovery Fund rappresenta un grande risultato dal punto di vista diplomatico, ma ha visto l’oscuramento delle istituzioni europee in nome di una netta partecipazione dei decisori nazionali. L’Unione Europea ha bisogno di essere vista sempre più come comunità politica e non solo come astratta entità economica contro cui rivolgersi in campagna elettorale. Ciò dipende, anche, da quanto la classe dirigente abbia compreso l’eccezionalità del periodo storico in cui vive e soprattutto la necessità di viverlo da protagonista.

Donatello D’Andrea

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