Zingaretti Centro-sinistra
Fonte: ANSA, via tpi-it

“Colpirne uno per educarne cento”. Il temibile slogan maoista che riverbera gli echi dolorosi della rivoluzione culturale riassume efficacemente il livello di tensione interno al Nazareno e alla galassia mediatico-culturale che fa riferimento alla svolta della Bolognina, a ciò che ne resta. La fine politica del quasi ex-segretario PD Nicola Zingaretti e del Centro-Sinistra che egli ha faticosamente provato a edificare, spesso in solitudine e troppo spesso ingenuamente, è infatti implacabile ambizione di molti e cosa auspicata da parecchi altri.

Ciononostante, le improvvise dimissioni di Zingaretti nel tardo pomeriggio del 4 Marzo (un anniversario che non pare affatto casuale) hanno destato innanzitutto stupore, shock si potrebbe dire. Chi ha provato giubilo ha provato a celarne le espressioni più gaudenti attraverso analisi ed editoriali misurati, si è lasciato andare a post, esternazioni e cinguettii inequivocabili, oppure ha preferito il silenzio. Gli sparuti sostenitori della gestazione di una nuova formula politica riferibile all’esperienza del centro-sinistra storico sono invece rimasti smarriti e perplessi, ma non troppo, dall’ennesimo auto-parricidio politico, forse dettato da ormai intollerabili condizioni di forza maggiore. Si è trattata di una decisione strategica lungimirante oppure di arrendevolezza?

Zingaretti: tanti nemici, tanto onore…poca politica

Durante gli scorsi mesi, apparentemente, le corrosive critiche relative alla direzione del Partito Democratico non sono mancate, da ogni parte, più o meno legittimamente. Esse hanno riguardato la percepita ineluttabilità dell’alleanza con il Movimento 5 Stelle e l’abbraccio mortale con Giuseppe Conte per un Conte ter, nonché la flebile consistenza della presenza mediatica del segretario e l’assenza di ministri donne nel governo Draghi, sostenuto in modo improvviso e acritico. In verità, una tantum, la questione è invece relativa alla sostanza politica. Lo spostamento “a sinistra” della segreteria Zingaretti rispetto al predecessore Matteo Renzi è un dato di fatto, ravvisabile nell’identità di governo del Conte II, ovverosia nella volontà di rafforzare il ruolo dello stato in economia con investimenti strategici per regolare il mercato e nell’ampliamento del sistema di welfare. Certo, si tratta di una volontà non sempre trasposta concretamente in fatti riconoscibili, ma ribadita quantomeno nelle parole e nell’indirizzo politico. Bisogna contentarsi davvero di poco.

Il disegno di medio-lungo periodo immaginato e abbozzato del presidente della regione Lazio è stato visceralmente avversato. Non solo dai transfughi di Italia Viva, ma anche da svariate correnti interne (su tutte “base riformista”, rifugio sicuro dei renziani rimasti nel PD), dall’opinionismo politico che fa capo al gruppo editoriale GEDI e dal mondo della media e grande impresa, guidato dalla Confindustria di Bonomi. A questi, nelle ultime settimane, si è accodato una nutrita compagine di amministratori locali, dal governatore Bonaccini in giù, con l’aggiunta del sottofondo della sinistra extra-parlamentare, che non ha risparmiato stoccate al segretario, rimanendo disillusa circa le possibilità di trasformazione politica del PD. Per scongiurare la concretizzazione del nuovo Centro-sinistra, lesivo di coriacei interessi ma indubbiamente anche segnato dalla gestazione troppo flemmatica e apatica, si è scelto di soffocarlo in culla attraverso il lento logoramento di Zingaretti, proseguito costantemente con strappi mai definitivi ma sempre acuminati, accelerato con la crisi di governo e sfociato ora nelle sue controverse dimissioni politiche, che hanno lasciato il Partito Democratico tramortito e nel caos.

Zingaretti
Fonte: affaritaliani.it

A farsi sentire, nelle ore successive allo strappo, è stato soprattutto il coro dei conciliatori, da Franceschini a Delrio, dai sindaci fino a personaggi come Guerini di base riformista: si chiede la possibilità di discutere senza volere necessariamente mettere in discussione la leadership di Zingaretti, per rilanciare un partito indiscutibilmente in affanno e dall’identità ancora nebulosa sui contenuti. Si invita accoratamente il vertice della segreteria di riconsiderare il suo auto-licenziamento. Ma le parole di Zingaretti che hanno anticipato le dimissioni sono state di una durezza non casuale: «lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie». Con tutta evidenza, l’auspicata discussione non è finora avvenuta attraverso i canali e all’interno delle sedi adeguate, ma piuttosto a mezzo stampa e su Twitter, con polemiche ad orologeria che ne hanno tradito una sediziosa volontà concentrata sulla pars destruens.

Il Partito Democratico, corroso com’è da un pluralismo correntizio che si esprime solo attraverso la polemica dei lunghi coltelli, non è in grado di sostenere le sfide politiche che lo attendono, né di elaborare una piattaforma scevra da personalismi e fondata sulle idee. Aprire una fase congressuale e spingere tutta la dirigenza e la base al confronto dialettico può costituire una mossa tattica arguta, per cercare di imprimere una svolta politica in senso più compiuto e marcato, coinvolgendo energie nuove in un autentico dibattito sui temi. Tuttavia, le dimissioni di Zingaretti scoprono il ventre molle di una leadership priva di un consenso diffuso nel partito (nessuna corrente è direttamente legata al segretario), nell’opinione giornalistica e forse anche nel paese, alienato dal politicismo estremo del confronto muscolare in casa PD. Per i suoi nemici, l’allontanamento di uno dei principali “costruttori” del Centro-sinistra potrebbe costituire l’anelata occasione di infliggere un colpo fatale all’ipotesi di una forza socialdemocratica e progressista, in sinergia con il Movimento 5 Stelle di Conte. L’ex presidente del consiglio che è stato infatti tra i pochi ad aver espresso solidarietà e vicinanza al leader decaduto, partner dello stesso progetto politico-strutturale.

Non c’è alternativa senza Centro-sinistra

Il possibile naufragio in porto della socialdemocrazia in salsa italiana non è cosa inedita. Il centro-sinistra “organico” è stato avversato aspramente durante le sue passate iterazioni, anche con metodi eversivi. I suoi nemici sono stati numerosi, implacabili e di varie tipologie. È possibile tracciare una linea che descrive un immaginario “ferro di cavallo” nello spettro politico, che unisce in una sintonia di intenti i massimalismi della destra, con la sua capacità di trascinamento del centro, e l’ingenuità della sinistra radicale: gli stessi attori che sono in campo oggi contro Zingaretti, nelle loro contingenze e incarnazioni passate, sono stati anche contro Nenni, Fanfani e Moro. Historia magistra vitae: il Centro-Sinistra della Prima Repubblica è proprio l’esempio che ci occorre per comprendere l’attualità.

L’esperienza politica che legò il monocolo DC di Fanfani con l’astensione di Nenni e la coalizione tra sinistra DC, il PSI, il PSDI e il PRI negli anni ’60 ha portato alla “scuola di massa”, alla nazionalizzazione dei settori strategici e alle garanzie dello stato sociale. Le riforme del Centro-sinistra, indebolite e poi bruscamente interrotte dal “rumore di sciabole” della destra eversiva e dei potentati economici nel 1964, sono proseguite con minore spinta propulsiva nel decennio successivo, che ha portato l’approvazione dello statuto dei lavoratori e dall’avanzamento sui diritti civili. La compagine dei progressisti è poi finita stritolata tra pressanti domande sociali lasciate inevase e gli anni di piombo, con l’epitaffio dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. La fine di quella stagione, poi riproposta con ancora maggiore effimera precarietà da Prodi nel 1996 e nel 2006, ha significato lo strapotere incontrastato del neoliberismo, del recrudescenze conservatrici e della crescita delle disuguaglianze.

Pietro Nenni e Aldo Moro. Fonte: startmag.it

Il Centro-sinistra è una costruzione fragile, segnata da una classe dirigente inadeguata, non sempre all’altezza delle sue premesse e dei suoi obiettivi, ma assolutamente necessaria per condurre il nostro paese ad una maggiore egemonia culturale delle tematiche relative alla giustizia sociale, di cui si avverte un disperato e urgente bisogno. Il consolidamento di una forza socialdemocratica finirebbe per costituire una finestra importante anche per una sinistra più ambiziosa e “senza centro”: chi più che legittimamente non si riconosce nella futuribile creatura di Zingaretti, potrebbe cogliere l’occasione per darsi una strategia e una fisionomia atta a rafforzare in prospettiva le proprie posizioni e le proprie possibilità di mobilitazione. Invece, con presappochismo, ostinazione e miopia, la sinistra radicale continua a liquidare ogni ipotesi di cambiamento del vicino politico come “falso ideologico”, accompagnandosi agli avversari della svolta da destra.

La formula della socialdemocrazia è da attualizzare, rielaborare e riscrivere ma è la sola possibilità per evitare la “polonizzazione” d’Italia, altrimenti costretta a scegliere tra una destra identitaria e una destra moderata, almeno nel breve e medio periodo. Non resta altro ad una sinistra che ha smarrito il proprio orizzonte utopico senza riuscire a riconnettersi alla realtà sociale. Non si può che auspicare che la tanatosi di Zingaretti possa portare ad una resurrezione politica, con o senza di lui.

Luigi Iannone

Luigi Iannone
Classe '93, salernitano, cittadino del mondo. Laureato in "Scienze Politiche e Relazioni Internazionali" e "Comunicazione Pubblica, Sociale e Politica". Ateo, idealista e comunista convinto, da quando riesca a ricordare. Appassionato di politica e attualità, culture straniere, gastronomia, cinema, videogames, serie TV e musica. Curioso fino al midollo e quindi, naturalmente, tuttologo prestato alla scrittura.

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