“I dipendenti paghino Irpef da soli, come gli autonomi. Basta sussidi, non diventiamo il Sussidistan” è con queste parole che Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, parte all’attacco verso lavoratori dipendenti e subordinati, come se la crisi intersettoriale innescata dal Covid-19 non fosse stata già abbastanza spietata verso questa particolare categoria lavorativa.
La platea della povertà si sta allargando drammaticamente. Secondo il rapporto Coldiretti “il coronavirus ha causato un’impennata del 40% delle richieste per aiuti alimentari con i fondi Fead distribuiti da associazioni come la Caritas e il Banco Alimentare, dove il numero degli assistiti è salito in maniera esponenziale nel giro di pochi mesi”. Certamente tra queste persone non figura la classe imprenditoriale della quale Confindustria rappresenta gli interessi, eppure chi richiede aiuto in Italia viene visto come una persona svogliata, unica vera responsabile della situazione socio-economica in cui si trova. Ed ecco che l’attacco ai percettori del Reddito di cittadinanza è presto servito: è indiscutibile che tale misura va a “distribuire i soldi a pioggia senza risolvere i problemi interni al sistema” come sostiene Bonomi, ma è altrettanto vero che la soluzione proposta dal presidente di Confindustria, ovvero lo stop a Quota 100 e Reddito di Cittadinanza, andrebbe a rendere ulteriormente ricattabili quelle fasce di popolazione già prive di tutele e vulnerabili, a causa sia della loro condizione socio-economica sia della pandemia da coronavirus.
In altri termini, ciò che il presidente di Confindustria chiede al governo è di terminare le già precarie politiche di sussidi al fine di liberare forza-lavoro sottopagata, sfruttabile e ricattabile per le aziende nazionali e non. È un attacco vero e proprio al welfare state.
Bonomi-Landini: il duro scontro su lavoro, produttività e sussidi
Il “Sussidistan” di cui parla Bonomi non esiste, o meglio, non esiste nei termini in cui ne parla il presidente di Confindustria; un altro “Sussidistan” invece è presente già, ed è quello che permette alle imprese private di accedere puntualmente e vantaggiosamente ai fondi pubblici: ai 7 miliardi di euro stanziati per il reddito di cittadinanza infatti, se ne contrappongono circa 20 erogati dallo Stato lo scorso anno a sostegno delle imprese in difficoltà sotto forma di incentivi, prestiti e sussidi. Sappiamo bene che questi soldi non vanno affatto ad innescare una spirale positiva per il benessere collettivo, tutt’altro: fondi pubblici che potrebbero essere utilizzati per migliorare i servizi pubblici come la scuola, la sanità o i trasporti, vanno invece ad incentivare la produzione di aziende private che possono così sostenere la propria produzione e, dunque, innanzitutto, il proprio profitto.
Non a caso, non si è fatta attendere la replica del segretario della CGIL Maurizio Landini in un’intervista a La Stampa: «Il Sussidistan è quello delle aziende che vivono di contributi pubblici. Tra il 2015 e il 2020 alle imprese sono andati sussidi per più di 50 miliardi. E più di un terzo dei 100 della manovra del 2020. Una cifra consistente, una parte è prevista anche nella manovra più recente. Sono sussidi per incentivare assunzioni, sgravi fiscali, aiuti di ogni genere. Noi chiediamo di uscire dalla logica degli aiuti a pioggia per una nuova politica industriale che incentivi a creare lavoro di qualità e non precario innanzitutto per giovani e donne». Il recente caso di FCA è l’esempio perfetto che racconta le distorsioni di tale logica: una multinazionale con sede fiscale nel Regno Unito e sede legale in Olanda che dal 2014 ad oggi avrebbe eluso il fisco italiano per una cifra vicina ai 60 milioni di euro, oggi riesce ad ottenere prestiti dallo Stato italiano per circa 6 miliardi di euro; una cifra abnorme ottenuta col solito metodo del ricatto: posti di lavoro mantenuti in Italia in cambio di finanziamenti pubblici, tutto con la complicità di Unione Europea e Stato italiano.
“E io pago!” avrebbe detto Totò.
“Coniugare salario a produttività” per tornare indietro di 60 anni
Carlo Bonomi non ha sicuramente visto La classe operaia va in paradiso, clamoroso film di Elio Petri con la magistrale interpretazione di Gian Maria Volonté. Se l’avesse fatto, capirebbe immediatamente quanto infame e disumana è la sua proposta di vincolare i salari alla produttività: il cottimo è il disprezzo più totale per la vita delle persone in nome della competitività e della produttività. Inoltre, in un mondo fatto di competizione selvaggia e sfruttamento e in cui diventa sempre più urgente ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, la proposta del presidente di Confindustria è totalmente fuori dal tempo.
«Se la produttività del Paese è bassa – ha affermato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini commentando la proposta di Bonomi – è perché si è investito poco nei prodotti e questo fa sì che si crei un valore aggiunto minore da redistribuire con i salari. In fondo, il salario è sempre un salario di produttività, in quanto si redistribuisce un plusvalore generato con il prodotto. Nei Paesi in cui la produttività è più alta, la precarietà è più bassa, da noi è il contrario, perché spesso in Italia si è scambiata la concorrenza tra le imprese con la concorrenza tra i lavoratori, per esempio con quanto avvenuto con il sistema degli appalti, i subappalti, le finte cooperative, in cui è il salario del lavoratore a fare la differenza di competitività tra le imprese”.
Dunque, quella che Bonomi definisce una “rivoluzione”, nient’altro è che la più becera delle controrivoluzioni, della negazione di tutti i diritti acquisiti dal secondo dopoguerra ad oggi. Come non rievocare le parole della ministra Teresa Bellanova quando affermò che con la reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si sarebbe ritornati al ‘900: ecco, con questo costante attacco alle tutele delle classi subalterne, non si torna al ‘900, bensì all’800.
Nicolò Di Luccio