Lorenzo Monguzzi, classe 1967. Brianzolo doc. Conosciuto ai più per aver fondato, a metà degli anni Novanta, insieme a Piero Mucilli e Simone Spreafico, i Mercanti di Liquore, con i quali ha inciso sei album e ha partecipato a moltissime illustri manifestazioni musicali tra cui, una delle più importanti, “Faber, amico fragile”, tenutasi a Genova nel 2000, dove sono intervenuti alcuni tra i maggiori artisti italiani.
Lorenzo nel 2013 è uscito con il suo primo lavoro da solista “Portavèrta” e, senza tante esitazioni, ci spiega il perché di questa scelta. Tra i coloriti ricordi della Monza di, ormai, un trentennio fa ed i progetti per il futuro, si delinea la sua personalità ironica, allegra e tagliente, che rispecchia la scelta compositiva e autorale delle sue canzoni.
Per te quanto è stato influente nascere e vivere in Brianza? Che rapporto ha Lorenzo Monguzzi con la sua terra d’origine?
«Questo ho cercato di spiegarlo in “Lombardia”, una delle mie canzoni. Questo brano viene, spesso e volentieri, interpretato come un’incazzatura verso la mia patria; in realtà c’è dentro sia l’amore che l’odio, come è normale che sia. Quando un qualcosa ti riguarda. hai tutto il diritto di amarlo, di cantarne le bellezze e le doti, però hai anche il diritto di arrabbiarti nel vederlo cambiare in modi che non ti piacciono: essere lombardi, a differenza di quanto accade a coloro che provengono da altre aree, è una condizione che porta dentro di sé molto contrasto. Storicamente la nostra regione è stata venduta e ricomprata mille volte, quindi è difficile mantenere una completa naturalezza verso questa terra, che ti cambia continuamente davanti agli occhi. Un grande segno di appartenenza, di progresso da parte della cittadinanza, sarebbe quello di difenderla, di impedire che la si deturpi, a partire dalla costruzione di certi mostri urbanistici.»
Nei primi anni Novanta la zona era molto attiva a livello musicale. Oltre ai Mercanti di Liquore, c’erano i Bluvertigo, i Soerba, Garbo. Come ha vissuto Lorenzo Monguzzi quegli anni di fermento? E oggi com’è musicalmente la Brianza?
«Non so dirvi, sinceramente, come sia la situazione perché vivo a Bernareggio. A Monza le case costano l’ira di Dio! Al di là di questo, sono sempre in giro. Sono convinto che, comunque, di gente che suona ce ne sia molta, ma che manchino i locali per fare musica dal vivo. È molto difficile farsi sentire live oggi. In quegli anni, invece, era piacevole vedere fermento, nonostante riguardasse, essenzialmente, la scena musicale più elettronica e modaiola; noi eravamo abbastanza di nicchia. Ti dirò, per molto tempo ho vissuto quella scena musicale con uno spirito di contrasto: noi eravamo di San Donato, quindi un quartiere di periferia, mentre, per dire, i Bluvertigo erano del centro di Monza. Ad ogni modo, ero in ottimi rapporti con Andy, con cui avevo messo in piedi, all’epoca, una sorta di factory ad Arcore, nella zona più estrema ed industriale, che si chiama Cascina del Bruno. Avevamo preso in affitto una palazzina con annesso capannone. Le stanze della palazzina le avevamo affittate a personaggi inquietanti, nel capannone avevamo allestito uno studio di registrazione. Quando ho conosciuto Andy ho cambiato idea sui Bluvertigo: erano molto più di quelli con le conoscenze e i soldi.»
Oltre che con i Mercanti di Liquore, ti sei esibito nello spettacolo “Canzoni che balzano attraverso i secoli”. Come è nata la collaborazione tra Lorenzo Monguzzi e Stefano Vergani che ha, ancora una volta, l’amore per il cantautorato italiano?
«Questo spettacolo è nato con l’intento di divertire noi che suoniamo. Non avremmo mai immaginato che potesse divenire così di successo e di rifarlo per più di due volte! Il titolo è preso da una poesia di Bukowski, in cui l’autore paragonava tutti i grandi artisti della storia dell’umanità a delle belve che hanno la capacità di balzare attraverso i secoli. Nessuno di loro, Bukowski per primo, si è preoccupato di rimanere, di lasciare delle testimonianze sul proprio operato. Anzi, talvolta, hanno fatto delle orribili e misere fini. Allora, io ho pensato che ci sono anche delle canzoni che hanno subito la stessa sorte, che ci ritroviamo a vivere come un qualcosa di popolare, senza che nessuno ricordi chi le ha scritte. Ad esempio “È la pioggia che va”, dei The Rokes di Shel Shapiro, è una canzone che tutti canticchiano, ma nessuno rammenta chi la scritta; stesso discorso vale per “La bella la va al fosso” e via discorrendo. Mi piace pensare, idealmente, che tra cento o duecento anni, un brano composto da Lorenzo Monguzzi possa fare questo percorso, che diventi un patrimonio della gente, ma un “patrimonio leggero”. In questo spettacolo, in sintesi, ci divertiamo, proponendo canzoni da cantare insieme.»
Cosa intendi per “patrimonio leggero”?
«Io mi muovo nell’ambito della canzone d’autore. Se fai un brano di dodici minuti, utilizzando le forme verbali e un lessico ampio ti definiscono bravo. Tanti colleghi utilizzano un italiano colto, fanno durare i pezzi tantissimo, di modo che non li possa ascoltare interamente in radio. Così facendo, pensano di aver creato un qualcosa di un certo valore. Secondo me non è, propriamente, così: non dico che canzoni lunghe ed impegnate non siano belle, però è vero anche il contrario. Ci sono canzoni talmente “leggere”, semplici ed immediate che riescono ad evocarti qualcosa di più profondo di altre che hanno la pretesa di richiamare chissà che cosa, ma non ce la fanno perché troppo “pesanti”.»
Nel 2013, dopo una lunga militanza nei Mercanti di Liquore, Lorenzo Monguzzi ha iniziato la sua carriera da solista. Qual è la differenza tra il concepimento di un lavoro da solista rispetto a quello di un gruppo?
«Essere un solista consente all’artista di trovare la propria strada, la propria voce, di avere un proprio stile. Non diventa più necessario far sì che la canzone, una volta pubblicata, si adatti all’immagine del gruppo. In parole povere, il solista avrà un margine estremamente più ampio di indipendenza, ma, nel bene e nel male, indubbiamente sarà molto più al di sotto dei riflettori.»
Vincenzo Nicoletti