«La zona d'interesse»: l'orrore dell'indifferenza davanti al genocidio
Fonte: JoiMag

«La zona d’interesse» è il quarto lungometraggio del regista britannico Jonathan Glazer, vincitore di due premi Oscar nel 2024, uno per il miglior sonoro e l’altro per il miglior film internazionale. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis pubblicato nel 2014, questa pellicola drammatica traspone la quotidianità di Rudolf Höß, membro delle SS naziste e comandante in capo del campo di concentramento di Auschwitz, della moglie Hedwig e della loro numerosa prole, che si sostanzia in un’idilliaca quiete borghese vissuta in una sorta di locus amoenus: una lussuosa tenuta signorile fuori città munita di piscina e con un prospero e curatissimo giardino, nonostante accanto a loro – separato soltanto da un muro sormontato da filo spinato – vi fosse il lager di Auschwitz, l’inarrestabile fabbrica di morte.

Il titolo del film fa riferimento, per l’appunto, alla superficie di 40 km² che delimita l’area del campo di sterminio, propriamente destinata alla permanenza dei gerarchi nazisti, dei carnefici. Ne La zona d’interesse, Jonathan Glazer adopera uno stile cinematografico algido, ipnotico, straniante ma anche documentaristico al fine d’esporre magistralmente la reiterazione di un abominio mascherato da normalità. È un’opera bicefala: da un lato v’è la rappresentazione di una routine ben scandita e codificata che cerca d’instaurare un’apparente spensieratezza e armonia ma, in verità, altro non è che una mera formalità. Una formalità tesa, nella sua monotonia, a rassicurare, a camuffare, a rimuovere qualcosa d’indicibile, di mostruoso; difatti, dall’altro lato v’è un abissale rimosso, un orrore insondabile e interminabile. L’inferno degli altri è la condizione per tutelare e preservare il loro paradiso.

Il regista britannico crea una perfetta geometria delle forme attraverso un’estetica estremamente definita e dettagliata rimarcando, così, non solo lo stereotipo della famiglia ideale veicolato dall’iconografia nazista dell’epoca ma, al contempo, attraverso delle riprese a distanza con piani lunghi e volutamente statici, con la quasi totale assenza di primi piani, si sofferma sull’alienante e ossessiva regolarità di un’esistenza abietta e banale che potrebbe riguardare ogni individuo. Le inquadrature fungono da gabbie dentro cui i personaggi stessi sono come imprigionati: privilegiati reclusi in una mendace e asettica dimensione fatta di cinismo, protervia, ossessività, vacuità e indifferenza a un passo dal genocidio.

In questa discesa negli inferi si percepisce sommessamente la profonda incrinatura che solca la superficie di uno status quo naturalizzato e distorcente. Ne La zona d’interesse ogni elemento – il giardino, i vestiti, i giocattoli, le gite al fiume, la cura maniacale della dimora, una festa elegante, una riunione di lavoro, l’amore paterno, i desideri di una moglie – subisce un sovvertimento valoriale: una radicale corruzione nel suo stesso significato in un quadro ideologico che plasma e annichilisce totalmente la realtà, l’umanità stessa. Dunque, Glazer induce deliberatamente lo spettatore a ritrovarsi in un pervasivo e angosciante stato dissociativo riproducendo un duplice film: uno visibile, l’altro udibile.

Tutto ciò, infatti, senza che si veda mai direttamente l’Olocausto che si perpetra incessantemente oltre il muro; da La zona d’interesse sarà possibile vedere in lontananza solo il fumo denso delle ciminiere dei forni crematori che eruttano resti umani di cui Höß è ineccepibile artefice e responsabile. La deportazione e la cremazione degli ebrei in quanto programmazione di un’ordinaria procedura di lavoro. La burocrazia e la manutenzione dell’orrore riflesso del volto gelido e distaccato della criminalità del potere che adora gli animali domestici e i fiori, ma non prova empatia alcuna verso altri esseri umani. Durante l’intera durata del film si odono in sottofondo solo urla strazianti, minacce, invocazioni laceranti, lamenti acuti, latrati, boati fragorosi. Un assordante e perturbante mormorio di morte: lo stillicidio sonoro di un genocidio meticolosamente pianificato che genera un viscerale disagio acustico, vivificando così l’inenarrabile che accade oltre il muro, laddove lo sguardo non può giungere.

La zona d’interesse deflagra la retorica cinematografica dei film sulla Shoah: è uno dei film più impattanti mai realizzati sugli olocausti, più che sull’olocausto, cioè sulle tragedie che tuttora si consumano e una di queste è proprio la tragedia di non voler vedere, trasformando lo sterminio altrui in un rumore bianco in seno a quella ributtante capacità umana di convivere con le atrocità, di pacificarsi con esse e di trarne finanche beneficio. Jonathan Glazer, quindi, decostruisce con la sua opera l’idea bislacca e mistificatoria secondo cui comparare gli orrori odierni ai crimini nazisti sia intrinsecamente minimizzante o relativizzante, e così delinea una traumatizzante continuità tra il mostruoso passato e l’attuale mostruoso presente.

La zona d'interesse
Glazer
Jonathan Glazer (Wikimedia Commons)

Pertanto, La zona d’interesse rappresenta lo spazio geografico-politico e simbolico-sensoriale dell’agghiacciante presentificazione del nulla, dell’abisso del pensiero, dell’accecamento individualista, dell’afasia verso un terrore senza nome, della banalità del male, in cui si dipana non solo l’esistenza della famiglia Höß, ma le radici della modernità medesima, e da cui emergono violentemente alcuni quesiti: in che tempo e in che luogo siamo noi che fruiamo dell’opera di Glazer? Siamo davvero al di qua della soglia di quel male?

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale». (Hannah Arendt, La banalità del male).

La zona d’interesse: Gaza, un genocidio sotto gli occhi dell’umanità

Il capolavoro di Jonathan Glazer più che una metafora sembra un documentario dal momento che ha preconizzato il primo genocidio trasmesso in live streaming dai suoi stessi esecutori sotto gli occhi dell’intera umanità. Ormai è trascorso più di un anno dal famigerato attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 che ha sconvolto il mondo intero e che ha creato l’ulteriore pretesto per attuare necro-politiche di pulizia etnica nella striscia di Gaza da parte dello Stato sionista d’Israele. Stando a uno studio della rivista scientifica The Lancet l’attuale bilancio delle vittime a Gaza sarebbe sottostimato per via dell’enorme difficoltà nel tracciare il reale numero dei morti date le condizioni catastrofiche, in particolar modo a causa della sistematica distruzione d’infrastrutture sanitarie, della detenzione e dell’uccisione del personale sanitario, oltre al blocco degli aiuti umanitari da parte dell’IDF. Quindi attualmente il numero delle vittime sarebbe all’incirca l’equivalente dell’8% della popolazione palestinese presente a Gaza: 186mila morti tra i dannati e le dannate della Terra.

Gran parte della società globale sembra invischiata ne La zona d’interesse di Glazer, vivendo passivamente la propria quotidianità feticizzata e individualizzata accanto a un terrificante muro politico, sociale e mediatico, che crea una distanza siderale dal vero e proprio inferno che è Gaza: una Auschwitz odierna, che come allora, non sembra turbare minimamente le coscienze di molte persone. La Nakba non è mai terminata e la Palestina rappresenta il pulsante cuore nero dell’Occidente coloniale e sempre più fascistizzato, perciò l’occultamento e la falsificazione dei fatti propugnata dai mass media e dalla classe dominante sono un efficace strumento al servizio del potere stesso, allo scopo di reprimere e anestetizzare il dissenso, d’istituzionalizzare il razzismo e d’annientare impunemente la vita di un intero popolo invisibilizzato e deumanizzato.

Pertanto, la brutale violenza sionista s’accanisce sui circa due milioni di abitanti della striscia di Gaza, ammassati, segregati e trucidati su un lembo di terra che si estende per 365 km²: il più grande lager a cielo aperto del mondo, dove avviene da più di 76 anni un silente genocidio con la complicità degli Stati occidentali – e in particolar modo gli USA – e l’inefficacia della Comunità Internazionale. Ciò è la dimostrazione di un’atroce ironia della storia: lo Stato colonialista-sionista dei superstiti dell’olocausto sta praticando a tutti gli effetti in Palestina un altro incessante olocausto.

La zona d'interesse
Glazer
Picasso, “Guernica” – 1937 (Wikimedia Commons)

Dai miasmi asfittici di un sistema valoriale ipocrita e marcio, fondamentalmente autoritario, imperialista e suprematista, da questo dilagante magma distruttivo di ogni forma d’umanità, di ogni istanza etico-politica, sociale e giuridica tendente alla giustizia sociale e ambientale, affiora veementemente una domanda: qui e ora cosa è possibile fare per interrompere la perpetrazione e la normalizzazione di un apartheid, di un genocidio tuttora in atto? A tal proposito, Brecht scrisse: «Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere». Evidentemente, nel solco della collettivizzazione delle esistenze, una soggettività si realizza e diviene ciò che è in base a quanto è disposta a lottare – andando oltre La zona d’interesse – per ottenere la reale liberazione di sé e di ogni altra soggettività umana e non-umana, perché vige un principio non negoziabile: il libero sviluppo di ognunə è la condizione per il libero sviluppo di tuttə.

«Il mio film mostra a cosa può portare la disumanizzazione, nella sua forma peggiore. Ha plasmato tutto il nostro passato e il nostro presente. Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e confrontarci con il presente, non per dire: “guarda cosa hanno fatto allora”, ma piuttosto: “guarda cosa facciamo adesso”. In questo momento, siamo qui come uomini che rifiutano la strumentalizzazione della loro ebraicità e dell’Olocausto da parte di un’occupazione che ha portato al conflitto per così tante persone innocenti. Che si tratti delle vittime del 7 ottobre in Israele o dell’attacco in corso a Gaza, di tutte le vittime di questa de-umanizzazione, come possiamo fare a opporre resistenza?». Discorso di ringraziamento di Jonathan Glazer agli Oscar 2024.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e il sionismo. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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