Il neo vincitore delle presidenziali americane, Donald Trump, ha annunciato che una volta insediatosi alla Casa Bianca, nominerà il miliardario Elon Musk e l’ex candidato repubblicano alla presidenza Vivek Ramaswamy a capo di un nuovo dipartimento per l’efficienza governativa, il DOGE. La tecnocrazia dei miliardari sta prendendo forma, negli Stati Uniti, con personalità di alto livello ma anche profondamente consapevoli del proprio peso economico e, di conseguenza, con obiettivi ben definiti che con la politica c’entrano poco. O meglio, c’entrano nella misura in cui i propri interessi possano essere garantiti.
A questo punto un quesito sorge spontaneo: cosa vogliono Musk e i suoi sodali dalla politica? L’imprenditore “visionario”, definito da molti come «missile geopolitico non guidato» e, quindi, potenzialmente pericoloso e imprevedibile, che in passato ha sostenuto proprio gli avversari di Donald Trump non fa mai le cose per caso. Con ben 250 milioni di dollari raccolti durante la campagna elettorale, Musk ha immesso nell’apparato politico americano tutta la sua potenza, puntando sulla sua figura e sul suo bagaglio economico e imprenditoriale. Un investimento che non può essere considerato a fondo perduto.
Restano da chiarire anche altri quesiti, di carattere personale, e cioè come tante personalità così dirompenti possano coesistere nello stesso sistema, nello stesso luogo (la Casa Bianca) e se gli interessi imprenditoriali possano effettivamente sposarsi con le necessità politiche e geopolitiche di un grande Paese, un punto di riferimento per tutto l’Occidente, come gli Stati Uniti. Forse questa è la sfida più grande e che non ammette errori. Il periodo è particolarmente delicato, come dimostrano gli ultimi accadimenti in Siria, Israele e Ucraina. E le prime uscite mediatiche dell’imprenditore di Pretoria dimostrano come, giustamente, gli ingranaggi diplomatici siano ancora difficili da digerire per Musk.
La discesa in campo al fianco di Donald Trump
Non è un segreto che sin dall’inizio, l’imprenditore sudafricano abbia deciso di scendere in campo al fianco di Donald Trump, mettendo sul piatto una potenza economica che nessuno possiede e soprattutto un’influenza mediatica e sociale che negli Stati Uniti ben pochi possono dire di avere. E la sola notizia del trionfo del Tycoon ha fatto schizzare le azioni di Tesla (del 12%), un segnale di quanto il legame politico ed economico sia forte e consolidato in questo governo dei miliardari.
Ma perché Musk è sceso in campo? Quali interessi può nutrire questo missile geopolitico non guidato nella politica americana. Non pochi, questo è certo. Il DOGE, questo nuovo e “visionario” dipartimento è stato ben definito con un post su X dallo stesso Musk: «faremo una revisione completa di tutte le agenzie governative, ci sono molte persone che lavorano per il governo e abbiamo solo bisogno di trasferirle a ruoli più produttivi nel settore privato». Insomma, la politica americana potrebbe servire a Musk per snellire ancora di più il settore pubblico americano e rafforzare quello privato, cioè le sue aziende.
Come? Attraverso la deregolamentazione, in modo da allentare i controlli dello stato sul mercato, sganciando Tesla e Space X dai limiti legislativi imposti dalla politica americana e contro cui più volte lo stesso Musk si è lanciato in critiche, attacchi e invettive, soprattutto attraverso i social (il suo, cioè X).
Tutto qui? Ovviamente no. Elon Musk “vede lungo” e ha ben compreso come poter utilizzare l’influenza politica americana ben fuori i confini nazionali. Le sue aziende sono delle multinazionali con interessi in tutto il mondo e sarà decisivo il peso della politica per favorire e stabilizzare l’ingresso delle sue aziende nelle nazioni alleate e non solo. Alcuni esempi confermano queste sue intenzioni: dalla possibilità di donare una grossa somma in denaro al partito di Nigel Farage, Reform Uk, ai tentativi di penetrazione nella politica di uno Stato come il Brasile. E il supporto di Donald Trump sarà decisivo in questo senso.
Conflitti all’orizzonte: il nodo irrisolto della Cina
Non mancano, però, alcune piccole ma grandi contraddizioni ideologiche che, nel corso del tempo, potrebbero portare alla nascita di conflitti all’interno del governo Trump. Uno su tutti il rapporto con la Cina. Musk deve molto al mercato cinese: dall’immensa fabbrica di Shanghai ai proventi che Pechino generà alle sue aziende (negli ultimi tre anni ben 54 miliardi di dollari). L’imprenditore di Pretoria coltiva una stretta relazione con l’establishment del Partito Comunista Cinese. Una cosa nota negli ambienti economici e politici americani, tanto che la stessa persona che guiderà assieme a lui il DOGE, e cioè Ramaswamy, l’aveva definito, “una scimmia da circo” nella mani di Xi Jinping.
Lo stesso Musk si è recato più volte a Pechino negli ultimi anni, e le sue aziende beneficiano di numerosi sussidi fiscali, prestiti a basso costo e agevolazioni che, forse, nessun imprenditore straniero ha mai ricevuto dal chiuso governo cinese. Quale sarà l’approccio del Ceo di Tesla in questo senso? Una domanda legittima, vista la folta schiera di politici anti-cinesi tra le fila del governo Trump. Da Marco Rubio a Michael Waltz, passando per lo stesso Ramaswamy. Tutti accaniti sostenitori di una politica anti-cinese che nuocerebbe alle tasche di Musk. E lo stesso Trump, artefice della guerra commerciale ancora in corso tra i due colossi dell’economia mondiale.
La politica americana ha bisogno di Musk?
Per Trump e i repubblicani, scegliere di affidarsi ad un miliardario così potente e dalle idee profondamente radicali è stata una mossa che politicamente ha pagato, almeno da un punto di vista prettamente superficiale. La convivenza, però, sarà ben altra cosa. L’imprevedibilità di Elon Musk è leggenda, così come l’istrionica personalità di Donald Trump. Due micce che, in caso di conflitto, potrebbero generare un’esplosione che avrebbe conseguenze non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto dell’Occidente.
I suoi stretti legami con alcuni tra i leader più influenti del globo e il valore strategico delle sue aziende e dei suoi prodotti (da Starlink a Space X) sono vitali, strategiche e insostituibili per la macchina politica americana e per l’economia, questo è indubbio. Ma proprio ciò attribuisce ad Elon Musk un potere di gran lunga superiore a quello dello stesso Presidente e una capacità di incidere che Trump dovrà tenere in seria considerazione.
La politica americana ha bisogno di Musk? Sicuramente sì, ma a quale condizione? E con quali obiettivi? Questi sono i quesiti da sciogliere e soltanto l’evoluzione di questo strano rapporto – un “attenti a quei due” ma senza le sfumatura comiche dei film – potrà dare una risposta chiara. La politica americana ha subito l’ennesima evoluzione, con un eco che si propaga anche in Europa. Non è una semplice questione politica legata alle nuove forme della destra istrionica e miliardaria, le conseguenze sono più ampie e toccano la capacità di un uomo di penetrare all’interno di governi, con le sue aziende, e quindi influenzarne le decisioni e, quando qualcosa non quadra, di utilizzare quelle stesse aziende per influire sugli apparati governativi stranieri.
Di esempi ce ne sono a bizzeffe: dalla possibilità di utilizzare i satelliti di Musk in Sicilia agli stessi che sono utilizzati dal governo americano per mantenere la superiorità numerica sulla Cina, senza dimenticare l’apporto che stanno dando all’esercito ucraino, con tutte le conseguenze del caso se l’accordo non si dovesse raggiungere per le resistenze di Zelenskyy.
Saprà Musk bilanciare il suo interesse con quello politico americano e con gli obiettivi, strategici e geopolitici, che una grande nazione come gli Stati Uniti si pongono per garantire l’equilibrio mondiale? La politica americana ha davvero bisogno di Elon Musk per perseguire i suoi obiettivi?
Donatello D’Andrea