Il trionfo di Donald Trump è il grido dell'America profonda
Fonte immagine: Wikimedia Commons

Inutile nascondersi dietro ad un dito. La vittoria di Donald Trump e dei Repubblicani alle ultime elezioni presidenziali americane è stata un trionfo totale. Camera, Senato e Presidenza: un trittico che, per almeno due anni, permetterà all’Old Party di controllare interamente la politica americana. Gli Stati Uniti sono nelle mani dell’ex presidente, dei suoi sodali, dei suoi seguaci e dell’America profonda, quella che, in un certo senso, ha deliberatamente scelto di voltare le spalle ai Democratici, non riconoscendogli più la possibilità di incidere sulle loro vite.

Ridurre il tutto ad aggettivi, a frasi fatte e a banalità non ha alcun senso. Chiamare il Tycoon “pazzo votato da altri pazzi” è un modo come un altro di fuggire dalla realtà. Costruire una narrazione, ora, non è la soluzione giusta. Kamala Harris, Biden e il gotha dei democratici avranno molto su cui lavorare, soprattutto di fronte all’evidenza che, anche negli “stati sicuri” il partito ha fatto molta fatica. Un verdetto su cui riflettere.

La vittoria di Donald Trump rappresenta uno spartiacque, l’ennesimo di questo decennio, per la politica americana e, di riflesso, occidentale. Il programma dei Repubblicani è stato molto chiaro, così come sarà chiaro l’impatto del nuovo presidente sui numerosi dossier presenti sul tavolo, dal cambiamento climatico alle armi, dall’Ucraina al Medio Oriente, dal rapporto con la Cina a quello con l’Unione Europea. Il grido dell’America profonda ha parlato chiaro: c’è bisogno di una rottura totale.

I “perché” dietro il trionfo di Donald Trump

Dissacrante, ambizioso, controverso, ambiguo, comunicativo. Se si dovessero usare degli aggettivi per descrivere Donald Trump, questi sarebbero sicuramente un ottimo punto di partenza. Dal 2020, il Tycoon non ha mai realmente abbandonato la scena politica americana, giurando a tutti che, prima o poi, sarebbe tornato alla Casa Bianca. Detto, fatto.

Perseverare, crederci. Donald Trump è riuscito perfettamente a trasmettere e a comunicare la propria immagine di sé non nascondendosi dietro ad un dito. Le pendenze giudiziarie non sono state nascoste, bensì utilizzate come cavallo di battaglia e ciò ha convinto gli elettori della sua buonafede. Strano a dirsi ma comunicativamente funziona proprio così. Le accuse, le ambiguità possono essere ribaltate e trasformate in un punto di forza, anziché di debolezza. Insistere, da parte dei suoi avversari, proprio su questi punti non ha fatto altro che polarizzare lo scontro. E dalla polarizzazione, è naturale che a guadagnarci sia il più controverso dei contendenti.

Un candidato forte per periodi difficili. Donald Trump è stato un candidato di rottura in un momento ben preciso della storia americana. Rispetto a quattro anni fa la situazione è peggiorata: dall’economia all’instabilità sociale, dalle guerre all’inflazione, passando per gli strascichi della pandemia. Il ricordo di Donald Trump è anche un ricordo in cui le cose andavano molto meglio per gli Stati Uniti. La damnatio memoriae non ha investito il Tycoon, anzi, sembrerebbe aver rinforzato la sua posizione. In quattro anni ciò che pensa non è cambiato, simbolo della genuinità del personaggio e di quelle particolarità che rendono, in un certo senso, Donald Trump unico. Lui non è un politico, non ha bisogno di costruirsi una maschera, piace proprio perché è vero.

Gli argomenti che toccano il cuore. Trump ha parlato alla nazione di “cose vere e sentite”, i suoi cavalli di battaglia intramontabili che sono entrati nel cuore dell’America profonda. Il presidente eletto ha intuito quali fossero i temi percepiti come più vicini ai sentir comune del popolo americano e li ha messi in campo senza veli, con il suo modo di fare, con la sua comunicazione violenta ma efficace. Negli Stati Uniti esiste un problema migratorio, percepito come fondamentale per gli equilibri societari, ed è stato affrontato senza mezze misure e nell’unico modo in cui il Tycoon poteva farlo: spostandone il focus sull’aspetto più invasivo ed emozionale, quello legato alla sicurezza. Gli Stati Uniti sono un impero stanco di farsi carico dei problemi e delle necessità dell’Occidente? Allora, secondo Trump, bisogna giungere ad un accordo in Ucraina, anche a costo di sacrificarla, perché gli americani ritengono che ci siano situazioni interne più dirimenti. Dare in pasto agli elettori pochi temi, ma semplici, efficaci e di “immediato accoglimento”.

La squadra giusta. Il Tycoon si è circondato delle donne e degli uomini giusti. A partire da Elon Musk e dal vicepresidente Vance. Uno è un simbolo della solidità finanziaria, imprenditore del fare e dalle idee brillanti. L’altro, invece, è un politico di sicura esperienza, rappresentante conservatore dell’ambiente economico e imprenditoriale dei “capitalismo di ventura” e allo stesso tempo – anche grazie al suo successo editoriale Elegia Americana – un rappresentante della classe media insoddisfatta. Senza contare Susie Wiles, nuovo capo di gabinetto del futuro governo Trump, la “donna di ghiaccio”, che ha curato la campagna elettorale di Trump.

Comunicazione efficace. Aspetto legato a doppio filo a tutti i precedenti. Donald Trump è un comunicatore eccezionale, ed è risaputo. Merito del personaggio che si è costruito nel corso degli anni, capitano di ventura che non ha paura di nulla. Ma la comunicazione è figlia anche della capacità di sfruttare le occasioni che capitano. Come nel caso del mancato attentato in cui nessuno avrebbe mai pensato di agire come ha fatto lui in Pennsylvania, alzandosi in piedi e continuando ad incitare la folla. Un evento che non è passato inosservato.

E i dem si leccano le ferite

Le elezioni americane ci hanno regalato un Partito democratico che annaspa anche negli stati un cui va forte, come la California. Kamala Harris ha investito molto sulla sua figura, sul gender gap e sulle minoranze, senza ricevere, però, lo stesso sostegno. La vittoria di Donald Trump è abbastanza trasversale e tocca anche quelle aree tradizionalmente fedeli ai democratici.

Il grido dell’America profonda ha investito la candidatura dell’ex procuratore come un fulmine e ciel sereno. Ci si aspettava una lotta all’ultimo voto ma il trionfo popolare, con quasi 5 milioni di voti di differenza, ha reso la sconfitta molto più rumorosa del necessario. Un tonfo così non se l’aspettava nessuno, soprattutto dopo il grande clima di entusiasmo creatosi attorno alla discesa in campo di Kamala Harris, dai più indicata come l’unica figura, in questo preciso momento, in grado di tenere testa a Donald Trump.

Cosa ha sbagliato Kamala Harris? Pur presentandosi come “cambiamento”, Harris non ha potuto incarnarlo completamente. Tanto per cominciare. Vicepresidente di un governo uscente, la candidata democratica ha dovuto, per forza di cose, sposare anche i provvedimenti della sua amministrazione. L’associazione a Biden è stata controproducente, soprattutto se confrontata ai temi che sono stati, per molto tempo, in ballo in campagna elettorale: economica – e quindi inflazione – e immigrazione. Nonostante un lieve miglioramento generale, l’amministrazione uscente non è mai riuscita realmente a comunicare e a sfruttare i dati positivi. Nella percezione generale, gli americani non hanno visto realmente migliorare le proprie condizioni economiche, perché nessuno “gliel’ha comunicato“.

Il tempo, di sicuro, non ha giocato a favore di Kamala Harris. Cento giorni di campagna elettorale sono insufficienti per cambiare le sorti di una competizione elettorale. Un team creato in fretta ed ereditato dal suo predecessore, una narrazione traballante costruita nel giro di un mese e una strategia comunicativa che doveva essere cucita non più addosso ad un settantenne in cerca di riconferma bensì su una donna, molto più giovane e alla prima candidatura. Il caos che n’è conseguito è stata soltanto una naturale conseguenza di un “piano” nato tardi e nato male.

Parte della responsabilità della sconfitta, secondo Politico e alcuni commentatori rimasti anonimi, è proprio di Joe Biden il quale, consapevole delle sue difficoltà avrebbe dovuto lasciare spazio ad Harris, dandole quindi il tempo di organizzare una campagna elettorale in tempi diversi. Ciò non toglie che l’iniziale entusiasmo mise un po’ in difficoltà i Repubblicani, i quali avevano impostato la loro campagna sulle “gaffe” del Presidente ma le successive scelte del team di Harris hanno sollevato più di qualche dubbio. Per un mese non ha dato alcuna intervista, per poi dedicarsi soltanto ai media progressisti. Al contrario del suo avversario, il quale ha deciso di raccogliere voti da tutte le categorie e classi sociali, Harris ha preferito rivolgersi da “serbatoi sicuri”, commettendo il più classico degli errori che un politico può fare: fidarsi del suo elettorato.

Comunicativamente, dopo un buon inizio, ha poi cominciato a fare gli errori del suo predecessore. La strategia di presentare Donald Trump non come un pericolo per la democrazia bensì come un incapace era la strada giusta. “Normalizzare” il proprio avversario, anziché dipingerlo come il diavolo in persona è quasi sempre efficace perché elimina l’elemento emozionale e polarizzante dalla discussione. Nelle ultime settimane Harris è tornata a raccontare il suo avversario con toni più cupi, usando le stesse argomentazioni di Biden. Un grande errore che ha contribuito a polarizzare la scelta.

Ma a pesare sono anche le scomode eredità del Partito Democratico e sulla sua cronica incapacità, ormai, di intercettare una società in rapido cambiamento. Una riflessione, a questo punto, si rende necessaria anche per evitare che quello scollamento tra i Democratici e gli elettori americani diventi definitivo.

Donatello D’Andrea

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