Le violazioni dei diritti umani in Turchia e la situazione dei curdi che ci vivono continuano a peggiorare, giorno dopo giorno. A Sur, distretto storico della provincia di Diyarbakir, è in vigore un coprifuoco imposto dalle autorità turche dal dicembre 2015: il più lungo della storia recente.

Quello che sta succedendo a Sur – centro storico che peraltro è patrimonio UNESCO – viene documentato da attivisti, reporter e ONG, ma non dai giornali mainstream, eppure non perde nulla della sua atrocità: migliaia di persone costrette a vivere sotto coprifuoco, case in cui spesso vengono interrotti i rifornimenti di luce ed acqua, bambini che vengono uccisi soltanto perché hanno osato uscire in orari interdetti. Nella maggior parte delle volte, i curdi – perché di loro si tratta – sono infine costretti ad andarsene e ad abbandonare le loro abitazioni. Questa è la politica che il governo ha adottato – di nuovo – nel sud-est della Turchia.

Sur, infatti, non è l’unica città ad esserne colpita: una dopo l’altra Cizre, Lice, Nusaybin, Şirnak e tante altre in questi due anni hanno sperimentato il coprifuoco. Quest’ultimo, secondo il governo turco, è necessario per poter fronteggiare il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, Stati Uniti ed Unione Europea. Eppure il coprifuoco danneggia soprattutto i civili, che sono costretti a spostarsi in massa e a ricominciare una vita in situazioni altrettanto precarie, creando masse di sfollati che stentano a ricominciare una vita normale.

Al coprifuoco di Sur, infatti, si è aggiunta la decisione del primo ministro Binali Yıldırım del marzo 2016 di ordinare un’espropriazione di emergenza nel distretto storico di Diyarbakir per «un piano di investimento e ricostruzione» che prevede la demolizione di molti edifici e la costruzione di 7000 nuove abitazioni. La decisione del governo, però, non ha tenuto conto del volere della popolazione, che in molti casi non ha abbandonato la propria casa fino a quando non è stata costretta, cacciata con la forza.

Demolizione di una casa a Sur, foto pubblicata dalla pagina Facebook “Binxêt – Sotto il confine”

Un rapporto di Amnesty International, stilato un anno dopo la dichiarazione del coprifuoco di Sur, ha dichiarato che gli sfollati sono 24.000, mentre le municipalità curde affermano che il numero va portato a 40.000. E da allora sono passati altri 9 mesi: mentre il saccheggio delle abitazioni dei curdi continua, la speranza di tornare a casa – per tutti quelli che se ne sono già andati – si affievolisce.

Del resto non è un caso che non siano stati presi dei provvedimenti per aiutare la popolazione che vive nelle aree soggette a coprifuoco e per garantire un suo ritorno nell’area. Anzi, la demolizione di molti edifici dimostra che il governo ha piuttosto uno scopo ben diverso: disperdere i curdi, estirpare alla radice quello che viene considerato un pericolo per la nazione, indebolire la minaccia interna nelle sue basi. C’è chi addirittura parla di punizione di massa, chi invoca il genocidio del popolo curdo.

La stessa Amnesty afferma che il piano di ricostruzione della Turchia appare essere ben altro: «L’attuale procedimento che sta avvenendo nell’intera regione suggerisce l’idea di un piano premeditato per la rimozione dei residenti, per distruggere e ricostruire aree per garantire la sicurezza attraverso il cambiamento di infrastrutture e il trasferimento forzato della popolazione».

Ciò che è certo è che quello che è in atto a Sur e nel sud-est della Turchia ha una nome ben preciso: guerra. La necessità di debellare il terrorismo è solo il pretesto per portarla avanti, mentre si mira a colpire i curdi nel loro insieme.

Una guerra interna e costante, in cui la Turchia sfodera vecchie armi: la rimozione forzata della popolazione è proprio una di queste. Già nel 1984, che è l’anno in cui effettivamente iniziarono gli scontri con il PKK, vennero evacuati 3000 villaggi, causando 378.000 sfollati (secondo le organizzazioni non governative si raggiunse il milione). All’epoca, però, si puntava alle campagne e ai villaggi rurali, che erano i principali luoghi di reclutamento del PKK, mentre ora si guarda alle città, diventate veri e propri centri di resistenza e luoghi di lotta importanti per i curdi. Andando ancora indietro nel tempo, agli albori della nascita della nazione turca, la rimozione forzata di popolazione (armeni e curdi) era un modo per garantire l’omogeneità – e quindi la sicurezza – del nuovo Stato-nazione. Una lezione che la Turchia sembra tenere ben stretta.

Dire che la Turchia è tornata al 1984 significa allora tante cose: guerra, repressione, violazione dei diritti umani, morte. Ma soprattutto una cosa: fine della libertà di essere sé stessi, di essere altro se non turco.

Elisabetta Elia

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