Immediatezza espressiva, coloritura vivace e sonorità esuberante: sono queste le peculiari caratteristiche del dialetto napoletano, inconfondibile baluardo di storie millenarie ed eterne tradizioni per un popolo che tuttora, continua a manifestare un inscindibile attaccamento alle proprie radici linguistiche.
Quando si parla di dialetto napoletano, una finestra immaginaria si spalanca su un mondo che vive e si nutre della realtà più autentica, quella fatta di relazioni quotidiane, di proverbi intramontabili, di capolavori letterari e musicali destinati a soggiogare il tempo.
Originato dal latino e dunque, dalla medesima lingua dalla quale ha preso le mosse l’italiano, ‘o nnapulitano, nonostante sia stato proclamato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità, non può essere considerato a tutti gli effetti una lingua di tipo ufficiale, non avendo acquisito lungo la sua infinita evoluzione i requisiti necessari per diventare tale: difatti, la suddetta varietà dialettale non conosce usi in ambiti giuridici e burocratici e per tale motivo, permane un’entità linguistica differente da quella italiana ma non in rapporto conflittuale con quest’ultima.
Tuttavia, è indubbiamente palese il fatto che lo status attuale del napoletano sia ben diverso da quello degli altri dialetti della penisola, potendo esso vantare una diffusione di respiro mondiale grazie alla sua preminenza nel campo dell’arte. E se per i restanti dialetti condurre un’indagine diacronica è un’impresa assai ardua, non si può dire ugualmente del napoletano dal momento che già a partire dal ‘300 si hanno testi scritti in dialetto, anche molto lunghi, i quali testimoniano tutta l’originalità di questa meravigliosa lingua. Di una certa rilevanza è lettera di Giovanni Boccaccio a Franceschino de’ Bardi che dimostra la perfetta padronanza che lo scrittore fiorentino aveva del napoletano dell’epoca:
“Faccimote adunqua, caro fratiello, assapere che lo primo juorno de sto mese de decembro Machinti figliao e appe uno bello figlio masculo [..]”
Risalgono invece al secolo quattrocentesco i cosiddetti Gliommeri, opere recitative con cui gli autori colti davano voce a personaggi popolari intrattenendo il pubblico della corte aragonese. Il nome di tali componimenti, dal latino “glŏmŭs-glomeris”, gomitolo, fa riferimento all’intreccio disordinato di pensieri e sentenze espressi dagli interpreti durante le esibizioni.
A rendere, però, davvero particolare la veste linguistica del napoletano sono state di certo le innumerevoli dominazioni straniere alle quali la Campania tutta è stata soggetta nel corso dei tempi: coloni greci, mercanti bizantini, governanti francesi e spagnoli hanno lasciato tracce incancellabili del proprio passaggio, influenzando con vigore gli usi linguistici del popolo partenopeo che, non di rado, ha preso in prestito dai forestieri molteplici termini che poi esso è andato ad inglobare, con qualche piccola variazione, nel proprio bagaglio lessicale.
Esemplari sono, a tal proposito, le parole spagnole che tra il ‘500 e il ‘600 arricchirono il dialetto napoletano, già impregnato di iberismi di epoca aragonese: basti pensare a “ingarrare” cogliere nel segno e al suo derivato “sgarro” errore, oppure a “paliatone” pesante bastonatura o ancora a “papiello” elaborato di eccessiva lunghezza, tutti termini che ancora oggi vengono scherzosamente utilizzati e che sono entrati a far parte perfino dell’italiano regionale.
Nel corso del ‘600, dopo che con “Le Prose della volgar lingua” di Pietro Bembo si era diffusa un’esaltazione generale del toscano che portò i letterati di Napoli ad evitare l’utilizzo del proprio dialetto nelle opere più alte, ci fu una sorta di ritorno alle origini con una forte pubblicistica teorica di sostegno al napoletano. Partenio Tosco ad esempio, con “L’eccellenza della lingua napoletana con la maggioranza alla toscana” cercò di mettere in evidenza la proprietà della lingua napoletana rispetto all’improprietà di quella toscana:
“E per cominciare dall’apparecchio su la tavola nella messa; quel che cuopre la mensa i toscani dicono tovaglia ch’è nome troppo generico alle mani et al viso. Ma i Napoletani dicono lo mesale perché spiega solamente il ricoprir della mensa.”
Durante lo stesso periodo, le classi popolari, custodi reali del patrimonio linguistico partenopeo, iniziarono a infoltire ulteriormente quest’ultimo tramite termini di origine colta che vennero adeguati, non senza deformazioni di significato, alla cultura orale: il vocabolo ” ‘nziria”, capriccio, dal latino insidia e “cumprimiento”, regalo dall’italiano complimento, furono utilizzati sempre più frequentemente.
In seguito, dopo l’egemonia settecentesca della favella toscana, il napoletano tornò nuovamente ad essere protagonista di una proficua produzione letteraria ed oggetto di studio di numerosi intellettuali interessati alla sua profonda tradizione storico-culturale.
Ma di questo ne parleremo nel prossimo approfondimento.
Fonte bibliografica: “I’ te vurria parla, storia della lingua a Napoli e in Campania” di Nicola de Blasi e Bianchi Patricia
Anna Gilda Scafaro