Era il 1920 quando, a termine del più grande conflitto della storia, il Trattato di Sèvres concedeva ai curdi l’autonomia e una patria. Dopo soli tre anni, però, a Losanna, viene rinnegato ogni impegno precedente e i curdi vengono abbandonati sotto la giurisdizione di quattro Stati: l’Iran, la Repubblica Turca appena proclamata dopo la fine dell’Impero Ottomano,  la Siria controllata dai francesi e l’Iraq sotto il mandato dei britannici. Da allora il destino dei curdi non è stato per niente felice…

Ma chi sono i curdi? Si tratta del più grande gruppo etnico del mondo, per un totale di 35-40 milioni di persone, senza uno Stato. Sono in maggioranza sunniti, ma ad unirli tra loro non è solo la religione – anche perché si concedono la libertà di culto – bensì la loro origine, la lingua, la cultura. Hanno un Parlamento eletto, un inno nazionale, una bandiera propria e addirittura un comitato olimpico. Nel 2012 la nazionale di calcio curda ha vinto il campionato del mondo tra Stati non ancora riconosciuti, affrontando squadre come l’Ossezia del Sud e il Sahara Occidentale.
Dove vivono oggi? Nel Kurdistan, la nazione senza Stato, un altopiano mediorientale situato tra il Tigri e l’Eufrate,  lì dove nacque l‘umana civiltà.

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Proprio nel Kurdistan i curdi lottano per l’antico sogno di indipendenza che dura ormai da secoli. Proprio nel Kurdistan i soldati curdi, oggi, in prima linea, combattono gli jihadisti dello Stato islamico.

Si fanno chiamare peshmerga, il cui significato letterale è “colui che si trova di fronte alla morte”, dal quale emergono i valori del sacrificio, dell’impegno, della dedizione, derivanti dal loro sogno nazionalista. La particolarità che caratterizza i soldati peshmerga è quella di integrare al proprio interno una buona parte di combattenti femminili, impegnate in prima linea. Il reggimento femminile è composto da quattro battaglioni, che raggruppano circa 500 soldatesse comandate da un colonnello, anch’esso donna. La loro presenza tra i peshmerga è vista come una forma di rispetto delle tradizioni curde. La Storia, infatti, ci racconta di un’attività militare femminile già nel diciottesimo secolo, quando i curdi si opponevano al controllo Ottomano. Perciò, possiamo dire che l’impegno alla resistenza e alla difesa della propria singolare cultura è insito in un testamento genetico che lega in maniera continua le combattenti curde di generazione in generazione: ieri contro il Sultano, oggi contro il Califfo, quest’ultimo intimorito dall’acume militare delle guerriere.
Gad Lerner, infatti, in un suo blog, ha scritto su come “i combattenti dello Stato Islamico avrebbero il terrore di morire per mano delle donne peshmerga”, al punto che molti di essi, durante la battaglia, si ritirano alla loro vista. La giustificazione a ciò si ritrova nel fatto che i miliziani dell’Isis credono di andare in Paradiso, accolti da 72 vergini, solo se uccisi da un uomo, “mentre se ad ucciderli è una donna la sorte è differente”.

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Oggi, comunque, i soldati curdi rappresentano il principale alleato dell’Occidente nella lotta contro lo Stato Islamico e, a tal proposito, gli Stati Uniti hanno già cominciato a stabilire una vera alleanza. Il governo statunitense ha inviato in Medio Oriente, a sostegno dei curdi, qualche decina di consiglieri militari e vari armamenti, i quali, con il supporto dei raid aerei della coalizione (Francia in primis), hanno permesso l’ottenimento di vittorie importanti per i peshmerga, come ad esempio la conquista di Sinjar, una città siriana situata sulla più importante linea di collegamento tra Raqqa, capitale de facto del Califfato, e Mosul, città irachena conquistata dagli jihadisti dell’Isis nel giugno dello scorso anno.

Tuttavia, gli analisti dello scenario geopolitico mediorientale, si pongono alcune domande. Come ad esempio: fino a che punto i curdi sono disposti a combattere contro gli jihadisti insieme all’Occidente? Fino a che punto sono intenzionati a spingersi in una guerra che va ben oltre il difendere i propri “confini” e il resistere all’avanzata del Califfato? E, poi, soprattutto, in cambio di cosa?

Sicuramente di un riconoscimento formale dell’indipendenza tanto sofferta e agognata. Un sogno destinato, però, ad essere infranto dalla volontà della Turchia, membro della NATO e alleato degli USA.

La ferita esistente tra governo turco e minoranza curda in Turchia è conosciuta e si fa sempre più aperta. Le recenti elezioni del 1 Novembre, grazie alle quali, nonostante si siano macchiate di evidenti brogli elettorali,  il partito filo-curdo dell’HDP ha comunque raggiunto la soglia di rappresentanza con il 10.8%  dei consensi, hanno acuito lo scontro civile.
Proprio ieri Tahir Elci, leader degli avvocati curdi, è stato ucciso in una sparatoria a Diyarbakir al termine di un incontro pubblico.

Non solo: la posizione ambigua e contraddittoria del presidente Erdogan nei confronti dello Stato islamico dovrebbe preoccupare – e non poco – la comunità internazionale.

I curdi, a tal proposito, sostengono che la Turchia appoggi l’Isis. Ieri, a Istanbul, circa 1000 manifestanti sono scesi in piazza in segno di solidarietà nei confronti dei giornalisti turchi Can Dundar ed Erdem Gul, arrestati per aver indagato sulle forniture e sul traffico di armi verso la Siria e dalla Siria.

A ciò si aggiunge che Bilal Erdogan, figlio del presidente turco, è accusato da alcuni oppositori politici di gestire una società di commercio, con basi logistiche a Ceyan, in Turchia, e a Beirut, in Libano, che esporterebbe il petrolio di proprietà del Califfato, il quale, a sua volta, ricaverebbe dalla vendita dell’oro nero circa 2 milioni di euro al giorno. A sostenere tale tesi è anche la comparsa sul web di alcune foto che mostrerebbero Bilal insieme a presunti miliziani Isis, riconosciuti perché apparirebbero in alcune immagini cruenti pubblicate da fonti vicine allo Stato Islamico. Una delle foto che testimonierebbe tale legame è questa:

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Alla luce di ciò, in relazione alle battaglie del popolo curdo e al supporto militare firmato Usa, senza dimenticare l’episodio recente dell’abbattimento del jet russo da parte della contraerea turca, che ha ricevuto il sostegno del presidente Obama, mi chiederei: più che la Turchia, a che gioco sta giocando l’Occidente?

Andrea Palumbo

 

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