Cinquanta anni fa, tra il 5 e il 10 giugno 1967, avveniva una delle vicende più significative nella storia di Israele: la Guerra dei sei giorni. Dopo diverso tempo sotto assedio, un fulmineo contro-attacco israeliano sbaragliò quasi la totalità delle aviazioni di Egitto, Siria e Giordania.
L’esercito israeliano, nonostante lo svantaggio numerico, dimostrò quell’imbattibilità militare che molti stati gli conferivano, primi fra tutti gli Stati Uniti. Da quel momento la geografia del Medio Oriente cambiò per sempre: all’alba del 10 giugno 1967 Israele aveva quadruplicato il suo territorio, occupando l’intera penisola del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania (West Bank) e le alture del Golan.
Enorme l’impatto per i palestinesi: 200 mila scapparono in Giordania, 70 mila vennero espulsi dalla Striscia di Gaza e ben 2 mila beduini cisgiordani furono costretti a fuggire dalle proprie terre. L’annessione della parte orientale di Gerusalemme, contraria alle norme del diritto internazionale, avvenne qualche giorno dopo, il 18 giugno.
Ancora oggi quella vittoria è considerata una delle più sorprendenti del ‘900, sicuramente la più schiacciante per Israele, «villa nella giungla» e potentissima forza militare, costantemente minacciata fin dalla sua costituzione. Il 50° anniversario di quel grande evento avviene in un clima di grandi celebrazioni e festeggiamenti, ma anche di concitati dibattiti e profonde riflessioni. La cerimonia ufficiale sarà celebrata a settembre, in una delle più grandi colonie del territorio palestinese: Gush Etzion. Tuttavia, per molti, il confronto con le implicazioni di quel 1967 non può aspettare così a lungo.
Un confronto che riguarda l’Israele di ieri, allora già gravido di dubbi e ambiguità sul destino della Cisgiordania — Giudea e Samaria per gli ultraortodossi — e sul rapporto con i palestinesi. Un Israele che, come ha ricordato l’intellettuale israeliano Amos Oz a L’Espresso, in quel 1967, prima di essere travolto dall’ondata di euforia, temette il peggio: «una seconda Shoah, l’annientamento di tutta la popolazione (minacciato da Nasser nei discorsi a Radio Cairo)».
Accerchiati e minacciati su tre fronti, gli israeliani si resero per la prima volta conto che nemmeno la “Terra santa” li avrebbe protetti dall’antisemitismo. Al contrario, il pericolo di un nuovo genocidio riguardava anche, e addirittura soprattutto, il Medio Oriente. Da lì nacque una consapevolezza che ancora oggi inquieta le scelte politiche del paese: Israele avrebbe dovuto affrontare quel deserto di pericoli da solo e con qualunque mezzo, contro qualunque nemico ne minacciasse l’esistenza. Un 1967 che, in questo senso, dopo 50 anni non è mai “passato”.
Ed è proprio in quei concitati giorni di cinquant’anni fa che Israele, richiamandosi anche a quel bisogno assoluto di sicurezza e protezione, faceva proprie quelle terre di “non-stato” — in quanto illegali e non riconosciuti dalla comunità internazionale — denominate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite “Territori Occupati”. Fu l’ONU, il 22 novembre 1967, a chiedere all’esercito israeliano di abbandonare immediatamente le nuove conquiste e ritornare ai confini legalmente previsti nel 1947. Tentativo che fallì quasi subito perché nessuna delle parti accettò la Risoluzione. Da allora, Israele vi avviò una politica di assestamento e colonizzazione, al fine di rafforzare la presenza della popolazione ebraica.
Oggi, secondo il movimento israeliano Peace Now, sono 228 le colonie costruite in Cisgiordania, tra insediamenti e avamposti, altre 12 situate a Gerusalemme Est. Lo scorso 30 marzo, Benjamin Netanyahu ha annunciato la volontà di creare un nuovo insediamento nella West Bank, a nord di Ramallah, la capitale provvisoria dell’Autorità Palestinese, per “risarcire” 40 famiglie ebree provenienti dalla colonia di Amona, vicino Gerusalemme, costruita illegalmente sopra terre private palestinesi e sgomberata a febbraio, dopo una sentenza della Corte Suprema. Il nuovo insediamento si chiamerà Geulat Zion e sarà la prima colonia totalmente nuova ad essere costruita da Israele dopo 25 anni.
Si stima che siano circa mezzo milione i coloni residenti nei Territori Occupati. La costruzione delle colonie è considerata, anche dall’ONU, il principale ostacolo a una pacificazione completa e duratura con i palestinesi. Nonostante questo, diversi cittadini israeliani continuano a trasferirsi negli insediamenti, non solo per ragioni ideologiche e religiose, ma anche per motivi economici.
Con il tempo, infatti, gli avamposti hanno acquisito le sembianze di veri e propri villaggi, con scuole, ospedali e attività commerciali. Alcuni israeliani concordano nell’idea che un giorno alcune colonie potranno essere smantellate, ma soltanto quelle più piccole. Per i più intransigenti, invece, lo smantellamento non può essere, in nessun caso, una via percorribile perché determinerebbe la fine di Israele.
Quando, nel dicembre 2016, il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione contro gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, definendoli un ostacolo «alla praticabilità della soluzione a due stati, nonché a una pace giusta, duratura e completa», il governo israeliano ha reagito convocando immediatamente gli ambasciatori dei 14 stati firmatari dei quella che ha denominato la «scandalosa» risoluzione. Per la maggior parte dell’esecutivo, infatti, gli insediamenti non sono solo aree funzionali alla sicurezza, ma parte fondamentale e indissolubile dello Stato ebraico di Israele, soprattutto quelli situati nella parte orientale di Gerusalemme, considerata capitale unica e indivisibile del paese.
Davanti a questo stallo, è chiaro come il confronto con le implicazioni di quel 1967 riguardi anche l’Israele del presente, ancora oggi uno Stato eccezionale. Eccezionale, non solo perché da oltre settant’anni è segnato dallo stato d’eccezione, ma anche perché continua ad essere, insieme: stato democratico e stato ebraico, società liberale e fortezza militarizzata, repubblica dei diritti civili e potenza coloniale.
Rosa Uliassi