Queste sono le mie ultime parole, e sono quelle che ho lasciato da parte perché qualcuno le conservasse e se ne prendesse cura. Non so quanto tempo mi rimanga esattamente, ma del resto nessuno lo sa mai, vero? Siamo lì un bel giorno a progettare ed affannarci, e il giorno dopo… ok, avete compreso il concetto. Sono le parole che vi porgo in dono, non ho molto altro da offrirvi, ma prima di accartocciare e gettare via il foglio ve ne prego, ascoltatemi.

Non sono un criminale, né un assassino, né un ladro, né un terrorista. Ho vissuto la mia vita con la dignità delle persone semplici, senza macchiarmi di colpa alcuna; eppure adesso sono qui, che mi accingo a percorrere gli ultimi metri della mia esistenza, ed a pregare Dio perché me ne conceda la forza. Nascere nel posto sbagliato al momento sbagliato: è questo il mio delitto, questa la pena da espiare. Sono cresciuto nelle stradine sporche di miseria, tra la polvere e i calcinacci dei balconi addossati fra di loro, rubando centimetri d’asfalto alle auto assetate di piombo, scalciando via gli sguardi biechi e le bestemmie come si fa con i piccioni. Vivere è lottare, lottare è vivere, questo l’ho imparato.

Non ho mai preteso nulla, se non un posto al mondo, un posto anche piccolo, ma che fosse almeno comodo, che sapesse di casa, che insomma fosse mio. Una speranza irrazionale, adesso me ne accorgo. Una sentenza pendeva sul mio capo fin dal primo istante in cui ho spalancato gli occhi e levato al cielo il pianto, già prima che le braccia di mia madre potessero cullarmi, ben prima che assaporassi l’aria e imparassi a conoscere il dolore. Mi sono nutrito di veleni di ogni forma, abbeverandomi a contaminate fonti, respirando nubi tossiche nell’impazienza disordinata della città. Ho calpestato un suolo putrefatto di scorie e di liquami, passeggiando nell’indifferenza silenziosa di lampioni al fosforo e moscerini impazziti. Ho amato gli scorci d’alba alle finestre tra i gomiti d’orizzonte piegati tra un palazzo e l’altro, gli angoli acuti d’ombra ai rami gracili delle panchine, i pomeriggi muti di domenica ancora sazi di ragù e televisione.

Non ho mai fatto male a nessuno, se non forse a me stesso, nell’assurda convinzione di potermi guadagnare la Normalità in un territorio il cui vocabolario si ferma una lettera prima, alla emme di Morte. La strada si accorcia ed ogni istante è spazio in meno a separarmi dall’inevitabile. Ma prima che ciò accada, voglio che questa mia lettera giunga a voi.

A voi, fratelli, che con me condividete le amarezze della sorte attraverso una battaglia quotidiana. E a voi, che governate queste terre dai vostri troni erti su scheletri e macerie d’ossa. Non permettete che lo scempio si perpetui. Non vi adagiate agli schermi della compassione e della commiserazione: quello lasciamolo ai programmi della domenica pomeriggio. Fate in modo da non rendervi corresponsabili dello sterminio; sono certo che se voleste, potreste: perché nessun angelo si calerà dal cielo a salvarci, se non sarete prima voi a renderlo possibile. Le nostre generazioni pagano un tributo folle in sangue e sofferenza, e non potete permettere che sia così anche in futuro, ed in futuro ancora. Ascoltatemi attentamente. Non siete stati voi ad umiliare questa terra barattandone la dignità per soldi facili, ma ne diventerete complici se non impegnerete ogni ora, ogni minuto, ogni secondo del vostro tempo per fermare questo strazio. Non ci occorrono le frasi di circostanza, né la solidarietà del caso. Non uccideteci una seconda volta, permettendo che il nostro sacrificio sia stato vano. Franate le montagne, straripate i fiumi, spezzate in due le strade se necessario, ma fate qualcosa! Agite, siate voi sindaci, o assessori, o consiglieri, o quant’altro vi ponga nelle condizioni di poter intervenire. Siete anche voi nostri fratelli, figli di questa stessa terra, e con i vostri stessi occhi avete visto già troppi di noi con gli occhi chiusi. Per sempre.

Fatelo per chi ha ancora un briciolo di speranza: basta ciarlare delle porcherie di sempre. Non possiamo costruirci gabbie di cemento e poi anelare la libertà lungo le vette inesplorate o le coste più selvagge. Abbiam bisogno di tornare a respirare, di liberarci dalle sozzure di un passato che ogni giorno torna a condannarci, puntando il dito in una direzione diversa. E se non sarete voi i primi ad esporvi, a realizzare il cambiamento, state pur certi che non lo farà nessuno. Perché nessuno vorrebbe venire ad abitare in una tomba.

Mancano pochi passi ed i miei muscoli vacillano, sopraffatti ormai dall’emozione. Volto il capo e adesso vedo chiaro, adesso vedo dove sono sempre stato: il cielo è una pozza di fumo stagnante, la terra è un vomito di plastica e metallo contorta nei conati. Il sole è un anello ossidato dalle bugie e dai detersivi, le case sono antri di catrame e di benzina con una croce nera al loro ingresso. E i miei fratelli, i miei fratelli, anime erranti in un inferno senza contrappasso, prive di volto e monche nella vita.

Qualcuno li salvi. Vi prego, qualcuno li salvi. Io non posso, sono solo un condannato a morte in attesa dell’esecuzione. Serro le labbra per trattenere un grido, lascio andare la penna ed abbandono il mio messaggio nel vento radioattivo dell’autunno. Dio perdonami, io non posso.

Emanuele Tanzilli
@ematanzilli1

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