Cos’è un eroe? Provate a definirlo. Provateci, ma senza pensarci troppo.
Se lo chiedeste a me, di primo acchito, senza consultare il vocabolario, risponderei che tale è colui (o colei) che si mette in testa di combattere un nemico più grande e più forte per il bene di se stesso, ma anche e soprattutto per quello degli altri.
Dev’essere una minaccia grave, però, qualcosa di veramente orribile e molto difficile da sconfiggere, quasi come una malattia. Magari un cancro, di quelli che si insinuano in maniera subdola ma inesorabile, e che lentamente, se non li curi, finiscono per ucciderti.
Come la mafia, espressione che indica tradizionalmente i gruppi criminali strutturati originari di una determinata area geografica, ma che, col tempo, ha acquisito un significato più ampio e onnicomprensivo della malavita organizzata.
In quest’ultimo senso non è il caso di sottilizzare, perché in qualunque modo la si voglia chiamare, mafia, camorra o ‘ndrangheta che dir si voglia, resta sempre una montagna di merda.
Una montagna di merda, come diceva Giuseppe “Peppino” Impastato, giornalista, politico, attivista di Cinisi, in provincia di Palermo, che si era messo in testa di combatterla, questa mafia, ma non con le armi.
Con le parole, le invettive, le prese in giro, gli strali che giorno dopo giorno venivano lanciati dal giovane Peppino dai microfoni di Radio Aut, un’emittente libera da lui stesso fondata, attraverso cui venivano denunciate le attività di Cosa Nostra, al tempo già molto potente e radicata su tutto il territorio siciliano. Un avversario bello grosso, come quelli che solo gli eroi provano a combattere.
E dire che Peppino Impastato la conosceva bene, la mafia, perché ce l’aveva in casa. Non nello stesso paese, non nello stesso quartiere, e neanche sullo stesso pianerottolo. Proprio in casa, in famiglia, perché suo padre era mafioso, così come suo zio e il cognato di suo padre.
Ma questa mafia proprio non piaceva a Peppino, il quale, tuttavia, sapeva – perché non era stupido – di non possedere un esercito per dichiarare guerra e sconfiggere un simile nemico, alla cui autorità, però, ci si poteva opporre con l’arma più potente di tutte: la parola.
In barba a tutti gli stereotipi su un Sud reticente, pavido, omertoso, questo giovane siciliano aveva deciso di parlare, denunciare, sbeffeggiare la mafia e i mafiosi, compreso un certo Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi, chiamato Tano Seduto nel corso di Onda Pazza a Mafiopoli, la trasmissione di punta di Radio Aut.
I criminali, si sa, non sono persone che stanno allo scherzo, e perciò la mattina di trentanove anni fa il nostro Peppino veniva assassinato dai sicari di Badalamenti, che, vigliaccamente, come solo i mafiosi sanno fare, ne inscenarono il suicidio, per sozzarne l’immagine, nel corso di un’azione terroristica fallita sui binari della Palermo-Trapani.
La verità è emersa solo diversi anni dopo, grazie alla determinazione della madre Felicia e del fratello Giovanni, che hanno così contribuito a riconsegnare alla storia la figura pulita di questo giovane eroe, un esempio per tutti coloro che non ci stanno a subire le regole del più forte ma che invece desiderano cambiare le cose, pur sapendo di rischiare la propria vita.
La storia ci suggerisce che il sacrificio di Peppino Impastato non è purtroppo valso a sconfiggere la mafia, ma avuto il merito di tracciare una strada, di insegnare un metodo, e soprattutto di dimostrare che anche il nemico più forte ha i suoi punti deboli, che molto spesso sono proprio quelli meno evidenti.
Carlo Rombolà