Il brainch della domenica: Cari signori che governerete, non gettate l’ambiente nella spazzatura
Agli osservatori più attenti non sarà sfuggita una cosa: il tono “debole” di questa campagna elettorale, priva di spunti dirimenti e di una reale visione dell’Italia su alcuni fra i temi più importanti come l’economia, il lavoro, l’ambiente e i diritti.
La battaglia del consenso si combatte in differenti trincee. Così, i programmi presentati dalle varie forze politiche sembrano più dei banali temini scritti di fretta e controvoglia che l’esplicitazione di un progetto di governo serio e ponderato.
È pur vero che sfiacchirsi per questioni importanti quando si possono raccattare voti promettendo cose a caso dev’essere sembrata un’inutile perdita di tempo, ma il confronto, che è il sale della democrazia, non è mai vano o fine a se stesso; proviamo quindi a ragionare su quelle che dovrebbero essere alcune fra le priorità più essenziali da affrontare all’indomani del 4 marzo, a cominciare proprio dall’ambiente.
Una politica verde senza Verdi in politica
Perché l’ambiente? Perché la questione ambientale è la questione primaria e fondamentale da cui far scaturire ogni azione politica: ciò invece sembra non essere valido in Italia, dove l’ambiente è sempre stato visto come un fastidioso impiccio all’abusivismo edilizio, nonché come un orpello superfluo per un Belpaese che si vanta già di possedere ‘o sole e ‘o mare.
A mancare è soprattutto una cultura politica e una tradizione ecologista di ampio respiro, che nel resto d’Europa viene incarnata dal partito dei Verdi e che in Italia… beh, sappiamo tutti cosa sono i Verdi italiani: la rappresentazione partitica dell’insignificanza più totale, l’epifania del nulla, la fenomenologia dell’insipienza – e forse è il caso che mi fermi qui.
Parigi sì, ma non basta
Naturalmente, il quadro di riferimento normativo e diplomatico all’interno di cui muoversi è rappresentato dall’Accordo di Parigi siglato alla Cop21 del dicembre 2015. Un impegno comune e collettivo per contenere l’innalzamento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi centigradi entro la fine del secolo. Ma attenzione: considerare Parigi come il traguardo a cui tendere sarebbe uno sbaglio gravissimo, anche perché, su stessa ammissione dell’ONU, gli impegni preliminari presentati come bozza di programma dai singoli Paesi firmatari, al momento, non sono neppure sufficienti a raggiungere tale obiettivo.
Occorrerà dunque in primo luogo assumersi la responsabilità di una politica energetica ed ambientale molto più coraggiosa ed ambiziosa, che vada coscientemente a sfidare gli interessi di alcuni per tutelare le sorti di tutti.
Un ambiente a prova di condono
Anzitutto, bisognerà pensare di intervenire con misure di messa in sicurezza del territorio, sempre più esposto al rischio sismico ed idrogeologico. Ed anche per questo va scritto a chiare lettere che non si condona più nulla. Gli abusi edilizi e gli ecomostri hanno divorato ferocemente il paesaggio e continuano tuttora a martoriare le nostre coste. Un fenomeno che colpisce maggiormente il Sud e le cui reali dimensioni sono ancora sconosciute. Basti pensare che soltanto ad Ischia, secondo le stime di Legambiente, ci sono almeno 600 costruzioni abusive che mettono a repentaglio la sicurezza dell’isola ogni volta che affronta piogge intense o scosse di terremoto, come nello scorso mese di agosto.
Tolleranza zero verso la mafia del cemento ed anzi, un rinnovato impegno a promulgare una legge sul consumo di suolo che, senza porsi obiettivi assurdi o impossibili, miri a realizzare il fatidico stop all’erosione di suolo per cause antropogeniche entro il 2050.
Energie rinnovabili sì o no? Certo che sì, ma un poco alla volta
La seconda grande, enorme sfida sull’ambiente riguarda, com’è ovvio che sia, le fonti di approvvigionamento energetico. Qui il discorso si fa senz’altro più complicato. Fermiamoci un attimo.
La transizione verso le energie rinnovabili non è solo consigliata: è inevitabile. Petrolio, gas e carbone non dureranno in eterno, e il loro impatto sull’ambiente produce gli effetti devastanti che già conosciamo. E non saranno le folli idee di Donald Trump a cambiare la realtà delle cose. Tuttavia, c’è da dire che finora anche lo sfruttamento delle fonti cosiddette “pulite” tanto pulito non è stato, come dimostrato da alcune ricerche.
Il potenziale non sfruttato dell’Italia in tal senso è oggettivamente enorme: non soltanto eolico e solare, ma anche idroelettrico e geotermico. Bisogna tuttavia ammettere, a malincuore, che non siamo ancora pronti a liberarci dal petrolio. Non dall’oggi al domani, quantomeno. Avviare una transizione moderata e graduale, dunque, è la soluzione più sensata.
Una transizione che non sia ovviamente “all’indietro” – che non preveda il ritorno alle trivelle, per intenderci – e che non abbia paura di scontentare i colossi dell’energia. Del resto la green economy non è soltanto un capriccio per ambientalisti, ma una sfida da tramutare in occasione per il rilancio economico del nostro Paese. È ora che anche ENI ed ENEL lo capiscano, e agiscano di conseguenza.
Dunque, che fare? Ridurre progressivamente i sovvenzionamenti statali alle energie fossili (che ancora nel 2016 superavano i 15 miliardi di euro) potrebbe essere un modo per liberare risorse da destinare agli investimenti in ricerca e sviluppo di cui l’Italia ha tanto bisogno, al fine di perfezionare nuove tecnologie che siano in grado di migliorare la resa e la convenienza delle rinnovabili.
Avere l’aspirazione di diventare leader mondiali nel settore, grazie all’intervento dello Stato e alle capacità e alle intelligenze di cui dispone l’Italia, non dovrebbe essere una barzelletta da raccontare in Parlamento, ma una convinzione decisa.
Chi inquina di più paghi di più
Carbon Tax: per quanto tempo se n’è parlato? Una tassazione “progressiva” che penalizzi i processi produttivi a maggior impatto ambientale e favorisca invece l’adozione di tecnologie meno inquinanti. Forse a qualcuno stupirà sapere che in Italia esiste già una carbon tax: è contenuta nella legge 448 del 1998 e riguarda tuttavia il solo utilizzo di olii minerali.
Fare invece del concetto “chi inquina di più, paghi di più” il modello fiscale alla base dell’intera filiera produttiva porterebbe nel tempo a rivoluzionare completamente il comparto industriale. Con le dovute cautele: non sempre questa misura, dove adottata, ha effettivamente causato una diminuzione delle emissioni di anidride carbonica nell’ambiente.
Inoltre, come da buon costume italiano, c’è sempre il rischio che qualcuno scelga di ricorrere agli sversamenti illegali invece di consentire la tracciabilità dei propri scarti. Una misura come la carbon tax dovrebbe quindi giungere solo al termine di un complesso ed organico processo di ammodernamento normativo (leggasi: mettere mano alla legge sugli ecoreati) e culturale, accompagnata dai necessari controlli.
Insegnare l’educazione ambientale nelle scuole
Già, l’Educazione ambientale: che fine ha fatto? Era il 2015 quando l’allora ministro dell’Ambiente Galletti si scomodò a redigere un dossier di oltre 200 pagine che avrebbe dovuto fare da preludio all’introduzione della disciplina nelle scuole italiane. Da allora, non se ne sono avute più notizie. E invece l’idea era buona, anzi eccellente.
L’educazione ambientale dovrebbe entrare fin da subito nel programma scolastico di giovani e giovanissimi, per consentire ai più piccoli di acquisire le conoscenze basilari e per formare quella sensibilità collettiva utile alla salvaguardia del nostro futuro: come ad esempio fare correttamente la raccolta differenziata, gettando il tetrapak nella carta, i tovaglioli usati nell’organico, e i politici che non tutelano l’ambiente nell’indifferenziato non riciclabile.
No, aspetta, forse Berlusconi può andare nella plastica…
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@ematanzilli
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