A meno di capovolgimenti clamorosi e al momento alquanto improbabili, alle prossime elezioni il Partito Democratico otterrà uno dei risultati più bassi — se non il più basso, rappresentato ad ora dal 26% alle Europee 2009 — della sua breve ma intensa storia.
E la lite sulla composizione delle liste con annessa, immancabile, minaccia di scissione non fa che scavare ancora di più il fondo che il PD credeva di aver già toccato nel post-referendum.
Ma come si è arrivati a questo punto? E soprattutto, il progetto PD avrà ancora ragione di esistere dal 5 marzo in poi?
La nostra analisi parte dall’aprile 2007, quando durante il IV congresso dei DS (Democratici di Sinistra) — che sancì la loro adesione alla nuova formazione che avrebbe dato vita, insieme alla Margherita e a parti della società civile, all’attuale PD — Piero Fassino delineava quelle che dovevano essere le linee guida del nuovo partito di centro-sinistra.
Esibendo una volta ancora le sue doti “profetiche”, l’ex sindaco di Torino affermava:
«Vogliamo dar vita ad un soggetto politico non moderato o centrista, bensì progressista, riformista e riformatore.»
Piero Fassino, IV Congresso DS, 19-21 aprile 2007
Dieci anni dopo la situazione è radicalmente cambiata e un’ennesima scissione produrrebbe un PD che potrebbe tranquillamente essere descritto come moderato e tendenzialmente centrista.
Gran parte dell’ala sinistra del partito ha abbandonato la nave tempo fa — qualcuno confluito in Sinistra Italiana, qualcuno in Possibile, il grosso in Articolo Uno – MDP, comunque tutti in Liberi e Uguali — e altre aree (su tutte quella che fa capo ad Andrea Orlando) minacciano la scissione in quanto scontente della distribuzione dei candidati nelle liste elettorali.
I problemi del PD sono riconducibili ad una malattia che accomuna tutte le socialdemocrazie europee, che stanno vivendo il periodo peggiore della loro storia. Così come la SPD, alle ultime elezioni in Germania, ha pagato i cinque anni di “Große Koalition” insieme alla Merkel con il peggior risultato elettorale della sua storia, anche il PD, dopo aver governato quasi per tutta la legislatura con i voti del centro-destra, subisce ora la fuga dell’elettorato storico di sinistra.
L’equivoco, probabilmente, sta nell’aver ceduto con troppa facilità alla “logica del buonsenso”, sacrificando una buona parte della propria stessa identità nel nome di un argine ai populismi che però, a conti fatti, non ha fatto altro che allargare la spaccatura tra “sistema e anti-sistema”. Non a caso, in Germania il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha ottenuto una grande affermazione attestandosi intorno al 15%, e in Italia le liste di un ipotetico “fronte populista” (composto da M5S, Lega e Fratelli d’Italia, accomunati da molte posizioni) arriverebbero oggi al 40/45% circa.
Il PD verso le lotte intestine
Il PD ha perso qualsiasi velleità da partito “di lotta”, inseguendo quella vocazione maggioritaria invocata da Walter Veltroni agli albori del partito e che sembrava ad un passo in un momento preciso della storia recente, che costituisce forse la chiave per capire gli attuali problemi del Partito Democratico: tra la fine del 2013 e la metà del 2014, ovvero nel periodo che comprende la decadenza di Berlusconi da senatore, l’elezione a segretario di Matteo Renzi e le famose Europee del 40%.
La prima circostanza ha eliminato dalla scena politica (solo temporaneamente, come si può notare di recente) il più grande avversario della sinistra degli ultimi 20 anni, nonché l’unica figura capace di mantenere compatto, contro di sé, un fronte allargato di centro-sinistra. Del resto, se sostenere che il centro-sinistra stesse insieme unicamente per fronteggiare Berlusconi può essere una forzatura, è anche vero che il PD nasce proprio nel momento di massimo splendore del Berlusconismo, per opporre alla leadership del Cavaliere un ampio blocco riformista e progressista. E infatti, alla caduta di Berlusconi, la sinistra ha intrapreso una spirale di lotte intestine che non si è arrestata neanche con la recente scissione.
Lotte intestine dovute anche, però, ad una figura ingombrante come quella di Matteo Renzi, rinfrancata per di più da un traguardo storico come quello delle Europee 2014.
Da lì in poi, però, qualcosa si è rotto.
Renzi ha interpretato quei numeri come il via libera per la creazione di un partito a sua immagine e somiglianza, intraprendendo una strada fatta di disinteresse (quando non disprezzo) verso le opposizioni interne e incarichi di peso assegnati in base alla fedeltà, più che al merito (i membri del cosiddetto “Giglio magico”, tra cui Luca Lotti e soprattutto Maria Elena Boschi). Linea non scalfita neanche dalla pesante sconfitta al Referendum costituzionale del 2016, che il segretario sembra aver interpretato come un semplice incidente di percorso verso la costruzione del “modello Macron all’italiana”.
Una politica che ha visto il suo culmine nella lite sulle liste elettorali, in cui molti analisti hanno visto la nascita del Partito di Renzi.
Nella costruzione delle liste Renzi ha infatti deliberatamente ignorato tutta l’area ex-comunista residua nel PD (emblematico il nome di Casini candidato nella “rossa” Bologna) e concesso spazio marginale alle aree minoritarie del partito, creando un instabile partito spinto verso il centro con il rischio di una scissione post-elettorale che avrebbe effetti disastrosi.
Un partito che Renzi ha tutto il diritto — e soprattutto i numeri, visti i risultati delle ultime primarie — di dirigere, ma che ben poco può dare in termini di peso e di utilità al paese. Ben lontano dal Partito Democratico come “una necessità del Paese” che “serve all’Italia”, come auspicato da Fassino in quello stesso congresso del lontano 2007.
Ha quindi senso parlare ancora del futuro del PD?
Un’altra legislatura segnata da un governo di larghe intese ridurrebbe probabilmente i consensi del partito al lumicino, considerati anche gli inversi rapporti di forza tra centro-sinistra e centro-destra rispetto al 2013 e il peso che potrebbe avere il PD in governi di questo tipo.
Cinque anni all’opposizione potrebbero invece essere utili per tirare le somme, fare un bel respiro e recuperare parte della propria identità e delle proprie radici. Fare un passo indietro per recuperare sé stessi.
Non è detto però, ed è anzi improbabile, che questo paese possa aspettare il centro-sinistra per altri cinque anni.
Simone Martuscelli