Continua la rubrica di “Lettere in soffitta” e questa volta si tinge di noir. Il prescelto della settimana è un autore della Roma decadente, dopo lo splendore di primo secolo raggiunto dall’imperator Augusto. Siamo sotto Nerone, eletto imperatore nel 54 d.C. grazie a varie manovre illecite: Roma viene piegata dall’incendio del 64 e si acuisce l’intolleranza verso quella superstitio, come la definisce Tacito, che è il Cristianesimo. Morto Nerone, il 69 d.C. passa alla storia come l’anno dei 4 imperatori: i pretoriani, assassinano Galba e acclamano Otone che, nel giro di pochi mesi, viene deposto da Vitellio; quest’ultimo viene ostacolato dalle legioni delle province orientali che proclamano Vespasiano, iniziatore della dinastia Flavia. Si giunge alla fine del lungo anno ma si entra nel cuore del declino romano. Come unico spettatore nel mezzo di un pubblico inconsapevole, Giovenale si arma di indignatio e non perde occasione per sguainare la sua spada e assestare colpi di tagliente satira.
Nel bel mezzo di un crocicchio, il poeta siede ad osservare una Roma ormai terra di tutti e di nessuno, inondata da liberti stranieri fin troppo ricchi e potenti, da ricattatori e millantatori, da donne volgari e vendute, da uomini pingui ed effeminati che hanno smarrito la retta via della virtù.
Davanti ad un simile degrado difficile est saturam non scribere (v. 30, I); ormai l’onestà è stata accantonata e trema per il freddo, afferma l’autore latino. Chi ha ben chiara la situazione smania per denunciarla: si natura negat, facit indignatio versum (v.79, I).
La satira, dunque nasce come genere letterario della denuncia e della beffa. L’etimologia della parola, per gli argomenti trattati, potrebbe derivare tanto dalla figura del satiro, da sempre emblema di una vita lasciva e corrotta, quanto dalla formula lanx satura (“piatto saturo, pieno di…”). Durante le cerimonie popolari dedicate alla dea Cerere, nei templi, venivano offerti piatti di molte e varie primizie; da qui la satira vista come un’offerta di abbondanti cibarie, varie nel genere, poste alla rinfusa e di natura rustica.
Quintiliano nel capitolo I del X libro delle Institutiones rivendica la paternità del genere: Satura quidem tota nostra est. Sorge in opposizione a categorie letterarie alte (epica e tragedia); non a caso, i vari autori definiscono la propria composizione sermo, una conversazione informale.
E’ considerato invector del genere Lucilio: è il primo ad adottare un unico metro, l’esametro, donando così alla satira una dignità letteraria. Promuove un linguaggio gergale e si avventa coraggiosamente contro i contemporanei. I suoi ludus ac sermones sono legati al reale ed escono ex praecordis, dal cuore.
Successivamente, Orazio introduce un cambiamento: ai suoi Sermones attribuisce la forma di dialogo; si distanzia dal predecessore per la sua attenzione allo stile, per il suo labor limae, considerando Lucilio troppo durus componere versus. La sua opera è un prodotto elitario, fruibile da pochi: niente a che fare con la crociata morale indetta da Giovenale.
Riconosciuti i meriti come predecessori a Lucilio e Orazio, la scelta poetica del nostro autore però si rispecchia maggiormente in quella di Persio. Poeta dedito al radere mores, Persio usa un lessico corporale e visivo. Giovenale riprenderà il suo abbondante uso di metafore, l’escamotage narrativo della frustrazione d’attesa e la tecnica della descrizione straniata (rappresentazione animalesca di essere umani per sottolinearne l’aspetto bestiale). Difatti, il suo stile è stato definito “sublime satirico”: il quotidiano raccontato con arte retorica. La sua piuma diviene così un bisturi tagliente e la sua tavoletta di cera, la tela di un quadro impressionistico dai tratti ben distinti, dai colori vivaci e da soggetti in caduta libera.
Giovenale scrive 16 satire, suddivise in 5 libri. Il vero spartiacque si ha, però, con la satira VIII in cui si percepisce una nuova fonte d’ispirazione: l’indignazione viene sostituita da una posizione democritea, più distaccata e ironica. Forse è più saggio, confessa il poeta, burlarsi della Fortuna anziché disperarsi (vv. 51-53). C’è chi interpreta tale cambio di rotta con l’estrema disillusione (maturata con la salita al potere di Adriano) di un cambiamento.
Tralasciando la prima in quanto proemiale e programmatica, le satire a seguire si presentano come un farrago libellu, una minestra insaporita da ogni tipo di argomento ma senza un pratico filo logico. Abbiamo attacchi all’ipocrisia (in particolar modo contro chi nasconde la propria omosessualità); una critica all’insostenibile vita urbana; la famosa parodia politica del consiglio di stato, durante il quale Domiziano chiama a raccolta i senatori per decidere come cucinare un rombo. Non viene risparmiata l’umiliante condizione del cliens, dipendente da un patrono che lo mantiene e protegge in cambio di servigi ignobili (a causa della rabbia con cui Giovenale descrive tale situazione, spesso ricorrente all’interno della sua opera, si pensa che questa fosse la sua effettiva condizione sociale). Non possiamo tralasciare l’indimenticabile satira VI, contro le donne e i loro artifizi, colpevoli di aver degradato l’istituzione matrimoniale. Al tramonto dell’epoca d’oro del mecenatismo, non può di certo mancare un apostrofo alla decadenza dei letterati.
Simile ad un reporter esperto di cronaca nera, infuocato dal vero, Giovenale decide di sensibilizzare il suo pubblico atrofizzato: bisogna scovare il vizio e metterlo alla gogna. In summa, stila un completo quadro della realtà analizzato da un occhio critico e riproposto da una piuma biforcuta.
Pamela Valerio