Agosto volge al termine: il caldo torrido di Lucifero ha – forse – smesso di tormentarci e aria di tempesta si respira all’orizzonte. Lettere in Soffitta questa settimana ha issato le vele e solca i mari: bussola alla mano, vento in poppa, sogna Itaca dietro il grande mito di Ulisse soggiogato dalle sirene.

Tutto ha inizio dalle epiche righe di Omero: Ulisse conquista, tramite le sue eroiche imprese, la fama di uomo scaltro, astuto e stratega. La sua unica debolezza è Itaca: la meta ambita, l’obiettivo di un lungo travagliato viaggio che merita addirittura un’intera opera omonima. Non lo placano i venti, non lo ostacolano le correnti contrarie, le ire divine del ciclope Polifemo, non lo persuadono gli amori di Circe e Nausicaa, né la promessa di eterna giovinezza accanto alla ninfa Calipso. Bisogna tornare a casa dove attende, fedele, Penelope, ma non prima di aver sondato inimmaginabili segreti, non prima di aver raggirato la crudele rete delle sirene.

In Dante siamo abituati a ricordarlo avvolto dalle fiamme, nella bolgia dei consiglieri fraudolenti (Inferno, XXVI).  Ed è ricoperto da lingue di fuoco, memento di come la sua lingua lo aveva allontanato dalla verità e dalla retta via. Ulisse ha dunque peccato per aver compiuto le imprese che lo resero grande nell’immaginario comune: come convincere alla guerra Achille, eludere le forti mura di Troia con l’escamotage del cavallo, rubare il Palladio alla città conquistata, avventurarsi per mari e rotte sconosciute sfidando i confini delle colonne d’Ercole, per l’appunto non plus ultra. Tutto per amore del sapere.

«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza» (vv. 118-120)

Dante è il primo poeta, dopo una lunga schiera di elogi,  a condannarlo facendo leva sulle stesse mitiche fatiche che, tra pensatori e strateghi militari d’antichità, lo consacrarono ad eroe dal fine ingegno e dalla mente brillante. Una gloria che durò fino ai successivi autori latini: Orazio, nelle Epistole, lo riveste del titolo di conoscitore di usi e costumi umani quanto delle asperità della vita, lui, lungimirante uomo di virtù; Seneca gli riconosce, assieme alla celebre figura di Ercole, la meritevole capacità di aver combattuto e vinto ogni sorta di paura.

Secondo Cicerone, un episodio non trascurabile per comprendere questa sete di sapere rimane l’incontro con le sirene, più care della patria in quanto veicoli di conoscenza. In De finibus bonorum et malorum, il famoso retore fa del misterioso canto una promessa gnoseologica: le sirene, infatti, avvicinavano le navi di ingenui marinai con deliziosi canti e voci soavi, assicurando loro di renderli partecipi di grandi e insondabili misteri. Dante riavvolge il nastro in chiave cristiana e le riveste di appetibile peccato, in quanto fautrici di vizio e morte: l’incantevole canto di sirena diventa un velenoso preludio alla lussuria terrena.

A partire da Kafka, il mito viene proiettato nella modernità: inizia la demolizione dell’atto di coraggio descritto da Omero. Atrofizzato da una società spenta e in decadenza, senza più dei in cui credere, Odisseo decide di tapparsi le orecchie con la cera insieme ai suoi compagni, non vuole ascoltare, non vuole più conoscere: a vincere è il silenzio, assenso ad una vita vuota.

Per Brecht, sono le sirene stesse a negarsi: perché sprecare il proprio canto con un uomo che non ha apprezzato la loro arte, fingendo solo di ascoltare senza aver subìto effettivamente il magico giogo?

Ben più radicata nella nuova società capitalista è la visione di Adorno, della Scuola filosofica di Francoforte: uno dei prodotti della civiltà tecnologica è l’apparato dei media, ovvero il subdolo strumento di controllo delle coscienze utilizzato dal sistema per autoconservarsi. E anche nell’industria culturale, il consumatore non è sovrano bensì oggetto; persino nel divertimento non è padrone del proprio tempo e della propria creatività, ma si adatta ad un programma già preimpostato. L’arte contemporanea, avendo rotto i ponti con gli schemi classici, è portavoce della frammentarietà del nostro mondo, risultando come il solo momento nostalgico ed unica speranza di riconciliazione con l’armonia passata.

Odisseo, signore terriero in questa versione, decide di tappare le orecchie dei suoi marinai-operai affinché non si distraggano e continuino a lavorare: «devono guardare in avanti e lasciare stare tutto ciò che è a lato». Lui, non essendo lavoratore, può ascoltare ma a patto che più la tentazione diventa forte, più saldamente deve essere legato all’albero maestro. Le sirene sono ormai puro oggetto di contemplazione, una manifestazione artistica a cui non si può partecipare attivamente.

«L’incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso.»

In poche parole, quanto Marcuse sintetizza nel concetto di Eros e civiltà: la civiltà di classe è portata a sviluppare una repressione degli istinti, subordinando il “principio del piacere” al “principio della prestazione”, ossia quell’imperativo intrinseco all’individuo che gli comanda di impiegare tutte le sue energie psicofisiche per scopi produttivi e lavorativi.

L’Ulisse impavido e temerario è dunque morto: ha deciso di essere sordo al richiamo della natura o del tutto impossibilitato ad essere realmente libero. Legato all’albero maestro subisce passivamente gli intriganti inviti al piacere senza poterne godere. È un operaio stanco o un padrone solo nei suoi agi; le sirene cantano, continuando a non essere comprese in un mare di storie e miti dimenticati.

Pamela Valerio

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