Il 13 aprile si è tenuta al Blu di Prussia di Napoli la presentazione della nuova raccolta di poesie della scrittrice napoletana Enza Silvestrini, Controtempo (Oèdipus, pp.72, € 11). Moderatori dell’evento sono stati il poeta e critico letterario Luigi Trucillo e la scrittrice e regista teatrale Wanda Marasco. Controtempo è un’opera vibrante e tesa: la poesia che la attraversa è dicotomica e complessa, perché estranea alle facili conciliazioni tipiche di quella letteratura consolatoria che pone il lettore al riparo da dubbi e interrogativi. È una poesia tanto impegnativa emotivamente quanto seducente esteticamente. I versi della Silvestrini indagano con voce leggera ma consapevole su tematiche letterariamente e filosoficamente importanti: la memoria, l’elaborazione del lutto, la caducità dell’umano, l’identità, il rapporto tra l’individuo e la specie.
Controtempo è una raccolta poetica ricca di temi importanti, tra i quali emerge quello dell’elaborazione della perdita. Da quale esperienza nasce Controtempo, e perché la scelta di questo titolo?
«Credo sia forte la coscienza della perdita rispetto alla quale si sente quasi la colpa di sopravvivere. Ogni perdita sembra riassumere la sparizione di un intero mondo. Ogni perdita è unica e incolmabile. Alcuni di coloro che amiamo sbiadiscono, ci lasciano progressivamente attraverso lunghi addii (come avviene per i malati di Alzheimer), altri vanno via improvvisamente. Io, come tutti, ho sperimentato la perdita, ma ho cercato di mettere a distanza l’urgenza delle passioni e di depurare il testo da ogni riferimento più immediatamente biografico. La poesia non può essere sfogo, deve saper parlare di tutti. Così Controtempo vuole riflettere poeticamente su alcune circostanze che deformano il normale assetto temporale, che inseriscono nel tempo un “controtempo”».
La tua è una poesia dialettica, percorsa da tensioni che ben rispondono a quella che Wanda Marasco ha definito «vocazione al rogo» dell’umano. I versi di Controtempo alludono infatti, come a un file rouge, al labile rapporto dell’uomo con la memoria e alla sua tendenza a dimenticare, a consumare e a consumarsi. Ci parli meglio di questo aspetto della tua poetica?
«Ho trovato commovente l’espressione di Wanda Marasco, che ha concentrato in un’immagine il senso della condizione umana che ho cercato di dire in Controtempo: in bilico, come equilibristi, tra perdita e acquisizione, insensatezza e ragionevolezza, necessità della dimenticanza e necessità della memoria. È, in fondo, un gioco di equilibrio sempre instabile. L’oblio ci insegue, ci morde i polpacci durante la corsa. Bisogna sottrarsi ma, nel contempo, farsi catturare e cedere, custodire ma anche lasciare andare. È una dialettica inevitabile che non trova sintesi. Su questi temi rifletto da tempo».
Che rapporto c’è tra memoria e scrittura? Credi che la poesia possa costituire una forma di resistenza all’oblio?
«Un rapporto strettissimo: la scrittura, e la poesia in particolare, sono i custodi della nostra memoria. Da tempi antichissimi noi affidiamo alla scrittura il senso di ciò che abbiamo attraversato. La poesia è la forma di resistenza delle parole affinché non diventino fantasmi. Leggevo, qualche tempo fa, i risultati di una ricerca che mostra quante parole negli ultimi quaranta anni abbiamo perso: sempre più persone conoscono ormai meno di mille parole sui 14 mila lemmi della lingua italiana. La perdita delle parole è la perdita del pensiero, perché le parole sono la condizione del pensiero e non solo mezzi per la sua espressione. La poesia ritrova le parole della tradizione e le reinventa, è una pluralità di sguardi. E in questo è anche una forma di resistenza politica».
Durante la presentazione hai parlato di una particolare scelta sintattica. Quella di Controtempo è una poesia sperimentale?
«Penso che la poesia di Controtempo sia piuttosto classica, come diceva anche Luigi Trucillo durante la presentazione. La sintassi procede per voli, contrazioni o assenze. È una scelta sintattica istintiva. La coscienza arriva dopo».
Un’ultima domanda. Oltre che poetessa sei anche narratrice, sei infatti autrice di un romanzo e di un racconto. Che differenza c’è tra la poesia ed il romanzo? Quale genere senti più vicino al tuo Io letterario?
«Ho attraversato scritture diverse ed ognuna ha la sua specificità. Per la prosa ci vuole molto fiato, come per un maratoneta: c’è bisogno di un tempo lungo e compatto per la narrazione, di coesione. È come costruire un’intera città in cui ogni elemento deve essere credibile per reggere all’urto della lettura altrui. La poesia ha bisogno di slancio, di uno scatto fulmineo e poi di tempo per essere messa a distanza, di lucidità per evitare di affezionarsi alle proprie parole che, nel caso della poesia, costituisce un rischio più alto. Negli ultimi anni mi sento più vicina alla poesia, non solo per la scrittura, ma anche per altre esperienze che alla poesia mi avvicinano: sono, tra l’altro, redattrice di Levania, una rivista di poesia nata a Napoli nel 2012. Ma mi dedico anche alla prosa collaborando come editor con Iuppiter, un giovane e coraggioso editore napoletano. È interessante accompagnare l’autore nel percorso di rielaborazione di un testo. È anche un modo per esercitare l’umiltà: bisogna mettere da parte il proprio narcisismo ed entrare davvero nella scrittura dell’altro».
Federica Spera