Quello della Finlandia è un caso davvero particolare. Da un lato un paese che si trova ad avere ancora il privilegio della tripla A sul debito sovrano e con un rapporto debito-PIL del 62%. Dall’altro lato un paese sull’orlo del baratro, che esce da tre anni di recessione e rischia di entrare nel quarto e che, secondo recenti stime riportate dal Wall Street Journal, ha segnato la peggiore performance economica dell’euro zona dopo la Grecia, bruciando ben 6 punti percentuali di PIL negli ultimi 7 anni.
Sul banco degli imputati finisce la moneta unica, accusata di aver alimentato una crisi dal quale si sarebbe potuti uscire con una svalutazione della moneta nazionale. Una crisi iniziata con il crollo della Nokia, la “compagnia di bandiera” e primo datore di lavoro del paese nordico, ma anche la crisi del settore della carta, e sopratutto le sanzioni dell’Unione Europea verso la Russia causate dalla guerra in Ucraina, che avrebbe contribuito più di ogni altro fattore a mettere in ginocchio il primo esportatore europeo verso Mosca.
In uno dei paesi più europeisti e rigoristi della zona euro, quello che ha incarnato il principale alleato della Germania sul versante della crisi greca, comincia a ventilarsi l’idea di uscire dalla moneta unica per poter risolvere una crisi senza precedenti. Dal partito del primo ministro Sipilä esce la proposta, supportata da 49 mila firme, di un referendum in tal senso, mentre i sondaggi confermano il calo del consenso dei finlandesi verso l’euro, che resta tuttavia ancora piuttosto alto.
Secondo l’analisi del WSJ sarebbe tuttavia semplicistico dare tutte le colpe alla rigidità dell’euro e dei vincoli in materia di svalutazione: i detrattori della moneta unica infatti prendono ad esempio due paesi come Svezia e Regno Unito che, fuori dall’euro zona, avrebbero superato – nel 2008 – crisi di simile portata grazie alla svalutazione delle loro monete nazionali, certo, ma anche grazie ad una progressiva riforma del mercato del lavoro e dunque grazie ad una complessiva flessibilità del sistema economico.
Insomma, mentre la Svezia dagli anni novanta ad oggi ha progressivamente rinunciato al modello sociale tradizionale dei paesi scandinavi, la Finlandia è rimasta ancorata ad un mercato del lavoro tra i più rigidi del vecchio continente, con conseguenze che potrebbero spiegare meglio i motivi di un costo del lavoro troppo elevato (il 20% in più rispetto alla Germania), una spesa pubblica enorme e una disoccupazione in crescita.
Quelle che sarebbero – sempre secondo l’analisi del WSJ – le riforme in grado di rimettere in moto l’economia del paese, senza rinunciare alla moneta unica, sono ricette che vanno ad intaccare un “generoso sistema di benefici sociali” sul quale sia i sindacati che le fazioni più a sinistra della stessa coalizione di governo non intendono mollare.
A questo proposito, il governo di Sipilä ha voluto fare richiamo ad uno «spirito riformista comune», con l’obiettivo di trovare la via d’uscita alla crisi e rilanciare le esportazioni con l’accordo – o per lo meno il consenso – delle parti sociali, e dare così l’avvio ad una serie di riforme della sanità, delle amministrazioni locali e del mercato del lavoro. L’appello del governo è stato tuttavia accolto negativamente quando lo spirito riformista si è tradotto in proposte come i tagli delle ferie nel settore pubblico o la riduzione degli straordinari per il lavoro domenicale.
A settembre la capitale ha visto scendere in piazza trentamila persone che hanno dato via alla più grande manifestazione degli ultimi quindici anni, mentre una serie di scioperi ha bloccato fabbriche, ferrovie e porti. Anche una parte della coalizione di governo approva con molta fatica politiche di austerity, tanto che con l’approvazione della riforma della sanità si sono cominciate a vedere crepe nella tenuta stessa del governo. D’altra parte non sembra percorribile neanche un aumento della spesa pubblica volto ad alimentare la crescita, a causa di un debito già eccedente i limiti imposti dall’Unione e una velocità di invecchiamento della popolazione che non ha eguali nel resto d’Europa.
Il governo ha dunque auspicato un «accordo ragionevole sui salari» con i sindacati del pubblico impiego e ha invitato i sindacati a formulare proposte alternative a quella del governo, diretta al taglio dei suddetti benefici contrattuali.
Se la Finlandia non dovesse attuare rapidamente un percorso di riforme in grado di destrutturare un welfare state considerato ormai troppo pesante, gli analisti prevedono tempi ancora più bui: coloro che un tempo erano considerati i primi della classe oggi si trovano ad arrancare più degli altri, non lontano dalla tanto vituperata Grecia.
Roberto Davide Saba