«Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e i visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango,
Che non conosce pace,
Che lotta per mezzo pane,
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome,
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi.»
Versi che fanno rabbrividire. Che, dal cuore, passano lungo la schiena, fulmineamente irrigidita dal tono perentorio di un ammonimento che sappiamo essere rimasto spesso inascoltato. Versi che ritornano. Che ogni anno, con l’avvicinarsi della Giornata della Memoria, tappezzano le nostre bacheche per lo più virtuali a ricordarci per l’ennesima volta – e forse mai abbastanza – quanto a denti stretti bisogna lottare in questo cieco mondo per essere e restare uomini. Parole queste che sono l’epigrafe di uno scritto che ha raccontato la storia, quella dei deboli sopraffatti dai potenti, e parimenti ha fatto la Storia, quella dell’umano che supera e vince l’inumano.
Lo scritto in questione è “Se questo è un uomo”, la penna quella di Primo Levi: questi i protagonisti del secondo appuntamento di gennaio di Lettere in Soffitta.
Testimonianza emotiva di chi è riuscito a sopravvivere alla prigionia di Auschwitz, “Se questo è un uomo” esce per De Silva di Torino (e solo successivamente per Einaudi) nell’anno 1947. La guerra è terminata da circa 24 mesi, troppo pochi per rimarginare ferite che, in realtà, non si chiuderanno mai. Esse diventeranno solchi, spazi tanto grandi impossibili da riempire. Eppure Primo Levi scrive non per muovere accuse, né per denunciare i carnefici di una strage da cui è uscito sì indenne, ma solo fisicamente. Levi scrive per necessità, per sentirsi ancora una persona, nonostante i capelli rasati, quegli indumenti a righe e le scarpe strette che condivide con i suoi compagni di morte; nonostante quel numero che lo marchia e che pesa sul suo cuore come una condanna. Una condanna a esistere soltanto, a non essere più.
I ricordi vengono buttati giù su carta perché raccontare non solo è un dovere nei confronti dei posteri, è un atto di fede nei confronti delle proprie capacità di uomo, è un voler tutelare quel che resta della propria dignità e che ancora ci fa dire di essere diversi dalle bestie.
«Nella marcia verso il lavoro, vacillanti nei grossi zoccoli sulla neve gelata, abbiamo scambiato qualche parola, e ho saputo che Resnyk è polacco […] Mi ha raccontato la sua storia […] una storia dolorosa, crudele e commovente; ché tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera […] e sono semplici e incomprensibili come storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?»
Sicuramente un’interrogativa retorica quest’ultima: Levi è consapevole che quanto sta avvenendo e riportando farà quello che millenni prima hanno fatto le Sacre Scritture. Il tempo dell’umanità si dividerà in un prima e in un dopo; nel punto di incontro delle due ampolle della clessidra dell’Occidente ci sarà l’Olocausto con i suoi 15 milioni di vittime e un numero inquantificabile di morti interiori.
Sono i sommersi e i salvati; i condannati all’Inferno e gli eletti al Paradiso.
In “Se questo è un uomo” c’è in effetti qualcosa di dantesco, lo si evince fin dalle prime pagine: al di qua del filo spinato che circonda il Lager, si ha l’impressione di annusare l’odore terrificante di quel regno della prima cantica della Commedia. Le sensazioni e gli echi lontani diventano poi citazioni esplicite ne “Il canto di Ulisse”, il capitolo undicesimo di questo diario di spaventosa bellezza.
Mentre si raschia e si pulisce l’interno di una cisternina, mentre il freddo e l’umidità penetrano nelle ossa sempre più fragili, Primo Levi cerca di insegnare l’italiano a Jean, che «parla correntemente francese e tedesco». Non conosce la lingua che è stata di Dante e quale modo migliore per illustrargliela se non quello di recitare – almeno per quello che è possibile ricordare – il XXVI canto dell’Inferno? Protagonista ne è Ulisse, colui che osò intraprendere il folle volo, andare oltre i limiti della conoscenza imposti da Dio per poi essere inghiottito dalle acque.
Nelle acque, quelle della malvagità, stanno per annegare anche Levi e Jean. Tuttavia hanno ancora un salvagente a disposizione, un’ancora a cui appigliarsi per poter restare a galla: la cultura. Cultura in quanto bagaglio di letture e fatti, coscienza delle proprie radici, esperienza di se stessi e degli altri; cultura in quanto civilità.
È la cultura a far sì che i tanti volti incontrati da Levi nel corso del suo tragitto di sofferenze e scoperte si staglino sui fogli bianchi come uomini, nel vero senso della parola. Per la Commedia si è parlato di “realismo figurale” – perché ogni anima si presenta a Dante pellegrino come realizzazione perfetta di ciò che era stata sulla terra – e ugualmente si può fare per “Se questo è un uomo”: i personaggi del libro, i quali condividono lo stesso destino dell’io narrante, sono pieno compimento dell’essenza di quell’umanità che sta al di là della prigione tedesca.
Coraggio, voglia di vivere, solidarietà, senso di appartenenza, resistenza, forza di sognare e bisogno di raccontarsi sono i valori laici di cui sono portatori Alberto, Scholme, Kraus e quelli in cui Levi ancora crede, malgrado tutto.
“Se questo è un uomo” è un libro che va letto, assolutamente. Un insegnamento che non va dimenticato e che va opposto a quelle manifestazioni di razzismo che ancora dilagano nel mondo, che risuonano nelle parole di un Presidente, negli atteggiamenti di indifferenza e di ostilità contro chi fugge da una guerra che lo ha privato di una casa, di un figlio, di una madre, del diritto ad essere.
Primo Levi ci ha lasciato in eredità un patrimonio prezioso di speranza.
Che le sue parole non vaghino più straniere al vento. Cogliamole e facciamole fiorire.
Anna Gilda Scafaro