Napoli porosa
Fonte immagine: Debora Incarnato

Un’immersione nei vicoletti del centro partenopeo tra improvvisazione e indolenza, Chiesa e camorra, quartieri poveri e una smisurata solidarietà: questo è ciò che riserva il libro Napoli porosa, delineando le meravigliose ed inquietanti contraddizioni di questa città.

La porosità sulla quale il capoluogo campano è costruita è quella della pietra di tufo giallo napoletano, materiale un tempo favorito dall’edilizia per la sua capacità di assorbire l’umidità e di rilasciarla in un secondo momento; questo derivato delle ceneri dell’attività vulcanica dei Campi Flegrei risulta freddo in estate e caldo in inverno. Di questa compenetrazione di opposti ne fa argomento dominante il filosofo e sociologo tedesco, nonché ebreo, Walter Benjamin nel suo saggio, andando così a costituire il leitmotiv dell’essenza napoletana. Ѐ il 1924 quando Benjamin, durante un soggiorno a Capri, decide di scrivere in Neapel, un dattiloscritto destinato all’amica attrice e drammaturga lettone Asja Lacis, le emozioni che la città gli ha suscitato e ciò che, da straniero, ha recepito della sua realtà. Nel periodo prenazista si manifestano i primi segnali di censure, subite anche dal saggista ebreo. In Neapel il curatore Elenio Cicchini ha cercato di riprodurre con metodica precisione le parti che non ci sono pervenute.

«Qualche anno fa un sacerdote, per aver infranto il codice morale, fu portato in giro per le strade di Napoli su un carretto. La folla lo accompagnava lanciando formule di malaugurio. Quando poi a un angolo s’intravide un corteo nuziale, il sacerdote si levò in piedi e fece segno di benedire. In quello stesso istante, tutti coloro che seguivano il carretto si genuflessero», così inizia il saggio. Chi si vuole riscattare da un torto subito si rifà alla Chiesa o alla camorra, non alla polizia. La devozione che permea la quotidianità, non a caso Napoli viene definita «la città dalle 500 cupole», e l’onnipresenza della camorra forgiano un atipico modo di reagire agli abusi, innestando una delle contraddizioni più evidenti, quella tra il sacro e il profano.

I vicoletti offrono uno spettacolo quotidiano, costituito da una marcata gestualità e dialoghi di strada, che rende chiunque protagonista di un unico grande scenario comunicativo. Dove maggiore è la povertà si riscontra una solidarietà impressionante e una rara umanità. La sensazione di festa qui si percepisce ogni giorno; all’attitudine all’indolenza nell’operare si alterna una capacità straordinaria di improvvisare. Benjamin scrive: «Un granello di domenica si cela dietro ogni singolo giorno della settimana, e quanti giorni della settimana sono contenuti in questa domenica!».

Queste e tante altre contraddizioni non si respingono in quanto tali, ma vanno a compenetrarsi; nulla è definito, ma tutto si fonde col suo contrario.

Abbiamo incontrato colui che ha avuto un ruolo attivo per la stesura di Napoli porosa, il proprietario della libreria Dante & Descartes Raimondo Di Maio, nonché esclusivo editore di alcuni romanzi di Erri De Luca (ultima uscita è Napòlide che va a caratterizzarsi sul concetto di nostos, dal greco «νόστος»: tornare a casa, il ritorno).

Com’è nata l’idea di questo progetto?

«Quando sono stato Gastarbeiter in Germania una sera sono uscito, ho comprato le opere complete di Walter Benjamin e ho cominciato a tradurre la parte che più mi interessava di “Neapel”. Normalmente passano 70 anni in una stagione solare per liberalizzare i diritti, Walter Benjamin si era suicidato nel 1940. Sono uscite tante traduzioni, di cui la prima di Einaudi; dopo averne lette un po’ ho fatto qualche variante. Le ho dato il titolo di “Napoli porosa” in quanto tutto, a partire dalla costituzione architettonica, ruota intorno al concetto di compenetrazione. Un giorno viene Elenio Cicchini, che è il vero e autentico curatore, traduttore e annotatore. Viene da me e mi porta i saluti di un grande filosofo internazionale Giorgio Agamben ed essendo suo allievo e studioso delle carte di Benjamin, gli ho dato i miei materiali, che ha ritradotto e curato dopo 40 anni. Così è nato il libro ed è uscito poco prima del lockdown. Una nota coloristica è la copertina che rappresenta quella Napoli popolare, premoderna; è stata trovata bagnata da me in una notte in un mercato e l’ho salvata».

Ha curato con Nicoletta Di Vita la parte lessicale del libro. Il termine “carretto musicale” è stato tradotto con “Pianino”, “abitazione” con “basso” e “acqua potabile” con “acqua fresca”. Quali criteri ha adottato nella scelta di determinate parole, per rendere così la traduzione dal tedesco più vicina all’essenza della civiltà partenopea?

«Io e Nicoletta, compagna di Elenio Cicchini e studiosa di filologia classica, siamo stati consiglieri e consulenti di quest’opera discutendo parola per parola. Ѐ un saggio già la traduzione in sé. Benjamin incontra il “Trombettone” e una serie di traduttori ha cercato di capire a cosa si riferisse; si trattava di una tromba di latta che si usava ancora negli anni ’50».

Com’è nata l’idea di recuperare il dattiloscritto e pubblicarlo dopo tanti anni dalla censura nazista?

«Elenio, studiando le carte di Benjamin, era a conoscenza che tutte le sue edizioni avevano una piccola censura fatta quando il testo apparve sulla “Frankfurter Zeitung”, non ancora “Allgemeine”; il redattore lo sforbiciò di alcune parti reputate antinazionaliste. Il nazismo non si era ancora ufficialmente costituito nel ’24. Era stata tagliata una nota contro Karl Baedeker, famoso editore di guide turistiche, poiché aveva scritto che le sue valutazioni tramite asterischi limitavano il modo di vivere a pieno le esperienze. L’idea che non si possa decidere cosa vedere o meno a Napoli, ma che bisogna lasciarsi trasportare da essa sembra, a mio parere, molto confacente con l’intelligenza libera di questo grande intellettuale».

Benjamin l’ha definita porosa; lei, da napoletano, come descriverebbe la sua città con un altro aggettivo?

«Inedita. Credo che Napoli abbia sempre un processo di approssimazione alla definizione, ma è indefinibile. Una grande analisi dell’intellettuale di origine popolare Domenico Rea con il saggio di 70 anni fa “Le due Napoli” dice che cosa dovrebbe essere Napoli, non quella che ci vogliono far credere che sia. Bisogna fare un po’ come Montesquieu con le “Lettere Persiane”, allontanandosi a una distanza di sicurezza; oppure dice che per capire Napoli ci vuole Defoe della “Peste di Londra”. E credo che Napoli nell’epoca del lockdown si possa capire con queste “non soluzioni”. Parliamo tanto di arte, ma abbiamo ancora una questione di bassi molto grave. Se uno abita in un basso e prende il Covid, deve convivere in quella situazione premoderna dove in una sola stanza c’è tutto».

Cosa pensa della devozione napoletana?

«Credo sia un fenomeno di controllo delle pulsioni sociali ed economiche, delle aspettative di vita e di speranza. Anche il miracolo di San Gennaro ha una sua fenomenologia particolare. La devozione è la parte buona della città, per questo la guardo come un fenomeno positivo. Naturalmente inganna anche un po’, perché questo provvidenziale dura giusto un convincimento. Nei paesi monoteisti le religioni servono a regolarizzare la vita quotidiana. Anche certi divieti nei paesi molto caldi, come quello di bere alcool e di mangiare il maiale, credo siano più legati alla determinazione climatica che alla volontà divina».

Il filosofo Walter Benjamin spoglia e valorizza al tempo stesso la radicata realtà di Napoli. Cosa si potrebbe fare oggi per valorizzare la nostra città?

«Amarla».

Anche le sue contraddizioni?

«Sì, ma non portandole all’esasperazione. Secondo me, c’è una pessima trasmissione. Quando ero ragazzo si diceva “par brutt” e noi venivamo dal popolo.  Abbiamo imparato che certe cose non vanno fatte. Adesso c’è una sorta di possibilismo generalizzato che non conosce educazione. Forse c’è un’educazione, quella dei camorristi tra padre e figlio, che è un’aporia terribile della città. Naturalmente la città bisogna amarla e sperare».

Debora Incarnato

Studio Lingue e letterature straniere all'Orientale di Napoli. Credo nella potenza dell'arte in ogni sua manifestazione. Abuso di black humor e nonsense.

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