Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa, dopo aver liberato i campi di sterminio di Chelmno e di Bełżec, aprirono i cancelli di Auschwitz, il più grande campo di concentramento costruito dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, costringendo chi aveva taciuto a prendersi le proprie responsabilità e posizionando un segnalibro della memoria tra le pagine dell’umanità.
A settantadue anni di distanza, questa giornata richiama oggi più che mai il bisogno di una riflessione, individuale e collettiva, più profonda e consapevole. Non per dare un senso alle solite promesse retoriche di un futuro migliore, ripetute con lo stesso tono di voce, che tentano di trovare un escamotage per sfuggire all’oblio: esso non è il peggior nemico della memoria. Si tratta, invece, di eludere minacce più attuali come la strumentalizzazione, la superficialità e la banalizzazione.
Ignorare quanti rom, dissidenti politici e religiosi, omosessuali e diversamente abili abbiano condiviso l’atroce morte di sei milioni di ebrei è indubbiamente impossibile. Ma rimanere indifferenti di fronte alle discriminazioni e violenze che subdolamente si consumano ancora oggi, sotto i nostri occhi, è decisamente disumano: i linguaggi e le parole si logorano facilmente quando la nostra prigionia psicologica e la nostra mancanza di coraggio inibiscono la nostra capacità di individuare le riproposizioni presenti delle stesse violenze passate che ci portano oggi a ricordare “affinché simili eventi non possano mai più accadere“.
E allora, che senso ha parlare di Shoah se l’opinione pubblica assorbe con un’indifferenza disarmante avvenimenti come l’occupazione, la colonizzazione e la pulizia etnica messe in atto da Israele (e finanziate dagli Stati Uniti d’America) in Palestina? Che peso effettivo diamo alle promesse future e alle parole ripetutamente recitate se giustifichiamo la vergogna indelebile sulla comunità internazionale come i massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila?
Ed ancora: che senso ha commuoversi davanti a film come “Schindler’s List” e “La vita è bella” se un migrante annega nel Canal Grande a Venezia mentre i turisti ed i passanti assistono al suo suicidio, filmandolo dal Ponte degli Scalzi e gridando “Africa”? Quanto profonda e vera è la nostra memoria se, di fronte alle condizioni dei 7000 migranti provenienti da Afghanistan, Pakistan e Siria bloccati al confine ungherese al nord della Serbia con -22°, continuiamo ad incitare la costruzione di muri e di barriere anti-immigrazione soggiogati dalle parole di chi trasforma sottili discriminazioni in violenze sterminatrici?
Di cosa parliamo quando citiamo Anna Frank? Cosa rimane nell’intimo a ciascuno di noi oltre alla solita poesia imparata a memoria tra i banchi di scuola, i film trasmessi alla televisione e le promesse retoriche ripetute meccanicamente? Ricordare il passato senza riflettere sul presente rappresenta un’immersione collettiva della coscienza nell’ipocrisia: la memoria si trasforma in finzione, e noi chiudiamo gli occhi di fronte alla banalità del male.
Ana Nitu