Dopo la domenica infuocata del 1° ottobre, in tutta la Spagna si percepisce un clima di attesa e di tensione in merito alla questione dell’indipendenza catalana.
Da una parte, i nazionalisti spagnoli nel nome della legalità sventolano la Costituzione come una bandiera e appoggiano le decisioni del governo centrale spagnolo e del leader del Partito Popolare Mariano Rajoy, il quale dopo gli atti di violenza compiuti dalla Guardia Civil e dalla Polizia Nazionale continua nel suo braccio di ferro con Puigdemont e dichiara che «Il Governo impedirà che qualsiasi dichiarazione di indipendenza si trasformi in realtà», invitando il «catalanismo moderato a tornare e ad allontanarsi da estremisti, radicali e dal CUP (Candidatura de Unidad Popolar, partito indipendentista catalano di estrema sinistra)» [El País, 7 ottobre 2017].
Anche il Re Felipe VI si è espresso in un discorso alla nazione in quanto garante dello Stato spagnolo, invitando alla calma e alla pace, ma contemporaneamente sottolineando che la politica del Governo si atterrà a quanto si legge nella Costituzione. In particolare si fa riferimento all’articolo 155 che consente allo Stato centrale di esautorare le funzioni dei governi autonomi, in base ad una procedura che il primo ministro ha minacciato di porre in essere nel caso in cui il governo autonomo di Catalogna procedesse a dichiarare l’indipendenza unilaterale, e che di fatto si tradurrebbe in una perdita dell’autonomia catalana.
Dall’altro lato, i cittadini catalani aspettano che il presidente Carles Puigdemont, in una convocazione plenaria prevista per lunedì 9 ottobre, «valuti i risultati del referendum del 1° ottobre e i suoi effetti» e che il Parlamento decida se rimettere la decisione a Madrid, comunicando i risultati del referendum e cercando una mediazione col governo spagnolo, oppure dichiari l’indipendenza unilaterale (tuttavia il tribunale costituzionale ha già “annullato” la convocazione della Camera Autonoma del 9 ottobre sospendendone le funzioni). Il tentativo di Puigdemont di cercare appoggio internazionale è fallito, con l’Unione Europea che ha risposto riguardo all’indipendentismo catalano tramite le parole del portavoce Margaritis Schinas:
«Rispettiamo l’ordine costituzionale della Spagna come facciamo con tutti gli stati membri» ed è «in seno a questo che tutte queste questioni dovranno o potranno essere affrontate».
[Ansa.it, 21 settembre 2017]
Mentre l’ONU si è limitata a richiedere «un’inchiesta ampia, indipendente e imparziale su tutti gli atti di violenza» commessi durante il voto del 1° ottobre [Zeid Ra’ad Al Hussein, un.org, 2 ottobre 2017]. Nel corso della settimana le maggiori banche e aziende spagnole hanno iniziato a uscire dalla regione (Sabadell, Gas Natural Fenosa, Caixabank), applicando una forte pressione economica sul fronte indipendentista.
Esiste tuttavia un “terzo fronte” tra i due schieramenti che, finalmente, è riuscito a farsi sentire con una serie di manifestazioni svoltesi in tutta la Spagna nella giornata di sabato 7 ottobre.
Il fronte delle cosiddette “Bandiere bianche”, tramite l’hashtag #Parlem/#Hablemos (“Parliamo” in catalano e in castigliano), invita a un dialogo tra il Governo spagnolo e la Generalitat catalana, alla quale è richiesto di rinunciare a una dichiarazione d’indipendenza unilaterale. Anche nelle maggiori città andaluse (Siviglia, Malaga, Granada) si sono svolte manifestazioni nei pressi delle varie sedi della municipalità, manifestazioni pacifiche che la polizia ha tenuto separate dei cortei nazionalisti che invece invocano il pugno di ferro nei confronti della Catalogna.
La presidentessa della Junta de Andalucía Susana Díaz e il suo rivale, il presidente del PP andaluso Juanma Moreno, si sono entrambi espressi in favore del lavoro svolto dalla polizia nazionale a Barcellona, facendo riferimento alla necessità di salvaguardare la democrazia spagnola. Susana Díaz, segretaria generale del PSOE andaluso (Partito Socialista Operaio Spagnolo), si è dichiarata a favore dell’operato del governo il cui compito è «ristabilire la legge» dichiarando, senza ambiguità, l’appoggio dell’Andalusia al governo centrale.
«Per la lealtà in quanto parte dell’amministrazione dello Stato, come presidentessa dell’Andalusia, collaborerò nella misura necessaria»
«Il presidente del Governo, il Segretario generale del PSOE e tutte le forze politiche sanno che la cosa migliore per l’Andalusia è che la Spagna rimanga unita e coesa nel quadro della Costituzione e del rispetto delle leggi.»
[Susana Díaz, El Mundo, 2 ottobre 2017]
Tuttavia, ciò che sente la maggioranza degli andalusi, insieme a molti altri spagnoli e a una parte della società catalana, è un diffuso senso di frustrazione e di impotenza nei confronti della radicalizzazione dell’indipendentismo catalano. Nonostante la distanza, da più di 50 anni c’è un flusso massiccio di lavoratori andalusi che si trasferisce in Catalogna, fuggendo dalla regione che detiene il tasso di disoccupazione più alto del paese, i cosiddetti “charnegos”, epiteto dispregiativo col quale vengono indicati gli ispanofoni emigrati in Catalogna.
In un articolo dell’11 settembre 2017 pubblicato da El País, lo scrittore sivigliano Antonio Rodríguez Almodóvar ricorda le politiche protezioniste iniziate nel XIX secolo dal governo centrale (prestiti finanziari favorevoli per la costruzione di grandi fabbriche a Barcellona, divieto di importazione di prodotti tessili e tasse doganali che hanno facilitato la circolazione dei prodotti catalani sul terreno nazionale), concludendo che questi provvedimenti economici, continuati sotto la dittatura franchista, sono stati orientati alla produzione di un sistema all’interno del quale la Catalogna, i Paesi Baschi e in generale il nord della Spagna costituiscono il polo industriale del paese, relegando il sud (e in particolare l’Andalusia) ad essere una fonte di manodopera a buon mercato.
Richiama inoltre la questione, all’ordine del giorno da una settimana a questa parte, degli effetti finanziari di una Catalogna isolata e fuori dall’Unione Europea e soprattutto della previdenza sociale in merito alle pensioni dei lavoratori andalusi tornati in patria dopo aver lavorato in Catalogna (la colonia andalusa a Barcellona ammonta, secondo un censimento del 2016, a 6.437 persone).
D’altra parte, secondo un articolo di ABCandalucía, la “minaccia” indipendentista non ha spaventato i lavoratori andalusi che, soprattutto quelli residenti a Barcellona, sostengono di non essersi mai sentiti discriminati dalla società civile, rimarcando quanto l’estremizzazione del nazionalismo non sia stata altro che una manovra politica imposta dall’alto negli ultimi anni. Un sondaggio dell’Università di Siviglia riporta che l’80% degli andalusi residenti in Catalogna tra il 1962 e il 1973 (su una popolazione totale di 1,2 milioni di andalusi emigrati in questa regione) non si sono mai sentiti stranieri in quanto ispanofoni, e ancora, secondo un rapporto del 2016 dell’Istituto di Statistica e Cartografia dell’Andalusia, la Catalogna è la destinazione scelta da più della metà degli andalusi che emigrano in Spagna.
La questione dell’indipendenza catalana non è tanto una questione ideologica, quanto prettamente politica. Gli ultimi avvenimenti hanno tutta l’aria di un gioco di potere tra un governo centrale che si è dimostrato miope nello stravolgere nel 2010, sotto pressione del Partito Popolare, lo Statuto di Autonomia del 2006 e autoritario nel reprimere militarmente il referendum, e una classe politica indipendentista che ha manipolato la questione identitaria a proprio favore, promuovendo un referendum anti-costituzionale e anti-democratico che altro non è stato se non una sfida e che ha sfruttato ampiamente il contrasto con il governo centrale per ottenere consensi (alla luce del referendum consultivo-simbolico del 2014 la maggioranza dell’80% in favore dell’indipendenza era rappresentativa di meno del 36% della popolazione catalana). La società civile spagnola, laddove con spagnola è ampiamente inclusa la società catalana, vuole la pace e di certo non è pronta ad una guerra civile che non gioverebbe a nessuno.
Claudia Tatangelo