Il nostro viaggio con la rubrica Il Ventre di Napoli giunge nel cuore della tradizione partenopea, tra le pagine di una città famosa da sempre e dovunque per la sua arte di arrangiarsi, per la sua innata e creativa originalità che ha dato vita a mestieri unici e impossibili da replicare altrove, indimenticabili figure dell’immaginario popolare che talvolta sopravvivono, in qualità di frammenti in carne ed ossa di un passato che non accenna a sbiadire. Tra questi, il mestiere dei saponari.

 «Robba ausata, scarpe vecchie, simme lente, stamme ccà! Bona ge’! Aprite ‘e ‘rrecchie, sapunaro, sapunà’!» 
(Roba usata, scarpe vecchie, siamo lenti, siamo qua! Brava gente! Aprite le orecchie, saponaro, saponà’)
Accompagnati da un grido ripetuto a mo’ di ritornello, con il tipico carrettino che sarà poi sostituito da un tre-ruote, i saponari percorrevano (e, certe volte, tuttora percorrono) i vicoli della città di Napoli e della sua provincia, aspettando che le donne si affacciassero ai balconi, pronte ad accogliere il loro invito.
Il saponaro è un mestiere risalente al XV secolo, legato ai monaci Olivetani che, per acquistare i mobili destinati al loro convento sito nell’odierna via Monteoliveto accanto alla Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi e vicino Piazza del Gesù, donavano il sapone da loro prodotto, simile al noto sapone di Marsiglia, ai falegnami. Questi ultimi potevano, poi, utilizzarlo per la cura del corpo o della casa, ma anche rivenderlo per aumentare i loro profitti. Così facendo, quello del saponaro divenne un vero e proprio mestiere a se stante, esercitato soprattutto da coloro privi di qualunque formazione, che pertanto venivano presi in giro dagli artigiani specializzati: di qui, l’appellativo sapunaro o sapunariello attribuito a coloro considerati incapaci.
Lo scambio avveniva sottoforma di baratto: la reale abilità dei saponari risiede proprio nel riuscire a convincere le donne ad acquistare inizialmente il loro sapone, che di solito era di qualità piuttosto scarsa, e in seguito i loro prodotti, merce di uso giornaliero, in cambio di qualsiasi oggetto e cianfrusaglia: oggetti domestici, abiti, scarpe che venivano poi ulteriormente riciclati.
Nasce così il detto «ccà ‘e pezze e ccà ‘o sapone», indicativo dello scambio «io do a te e tu dai a me», sempre ben gradito alle signore, poiché le aiutava a smaltire gli oggetti vecchi e inutilizzati. Solo in casi rarissimi, quando in casa non c’era nulla da buttare via, lo scambio avveniva mediante il denaro.
La figura del saponaro si inserisce perfettamente all’interno della tradizione partenopea perché si fonda su una caratteristica tipica delle casalinghe napoletane, particolarmente attente alla pulizia della casa, tenendo ben presente che, a dispetto degli squallidi pregiudizi,  Napoli fu una delle prime città italiane ad introdurre l’acqua corrente all’interno delle abitazioni.
Il mestiere dei saponari è sopravvissuto fino al secolo scorso, e ancora oggi sopravvive  in alcuni piccoli paesi: il saponaro girovaga per le strade vestito degli stracci che vende o acquista, anticamente portando sulle spalle un sacco di iuta contenente il sapone, la cui produzione è poi finita nelle mani delle grandi aziende, in seguito all’esplosione del commercio. Nonostante la sua scomparsa però resta una figura di spicco del folklore partenopeo, con la sua vocazione teatrale ed eccentrica tipica di Napoli, con la dialettica e la persuasione che distingue la nostra gente, con l’abilità di fare tesoro anche degli scarti e dell’immondizia, incapace di arrendersi ad una povertà materiale controbilanciata dall’immensa ricchezza di spirito e di fantasia.
«Stracci, malandate stoviglie, una sedia sghemba, coppole logore, coperte da rammendare, rotoli di spago, pastorelli di creta: tasselli di vita che fu, in bilico sul filo del tempo, nell’attesa di riguadagnare la scena. È il carretto del cenciaiuolo, o’ sapunaro, ricolmo di tutto e di niente»   -Giovanni Leone
Sonia Zeno
Quotidiano indipendente online di ispirazione ambientalista, femminista, non-violenta, antirazzista e antifascista.

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