L’Amazzonia, una delle regioni più importanti per l’ecologia mondiale, è ormai sul piede di guerra. Beninteso, una guerra in senso lato, non combattuta con bombe e fucili, ma con decreti, leggi e tutti i vari strumenti che assegnano a un ristretto gruppo di persone un enorme potere decisionale. In questo caso, il potere è nelle mani del presidente Bolsonaro.

Sebbene per giudicare il lavoro di uomo è utile aspettare la fine del suo percorso, possiamo affermare già da ora che la politica ambientale e a tutela delle minoranze del nuovo Presidente brasiliano potrebbe produrre più effetti collaterali che benefici. Questa volta a far scalpore non sono le frasi discutibili di Bolsonaro, infatti, ma le sue scelte in merito all’Amazzonia e alle popolazioni indigene.

Come nasce il problema dell’Amazzonia

Il 70% di questo magnifico ecosistema si trova sul suolo brasiliano, sebbene tocchi anche altri Stati. Da trent’anni la gestione del territorio della foresta era affidato alla Fondazione Nazionale degli Indigeni. Questo ente aveva un compito tutt’altro che banale: dipendente dal Ministero della Giustizia, era preposto all’individuazione, al mantenimento e alla creazione di nuove riserve indigene.

Bolsonaro ha tolto la prerogativa del controllo delle riserve a questa fondazione e l’ha assegnata al Ministero dell’Agricoltura, ed è qui che iniziano i problemi: a capo del ministero c’è Tereza Cristina che, per chi non lo sapesse, è leader del gruppo Bancada Ruralista, deputato alla protezione degli interessi dei grandi coltivatori brasiliani (una versione moderna ma in parte riconciliabile dei latifondisti del Settecento).

Già da prima della sua indipendenza, avvenuta in maniera del tutto incruenta nel 1822, il Brasile era deputato alla coltivazione: principalmente monocolture sfruttate dalle grandi corporations (grandi aziende presenti in più nazioni) del continente americano. Queste monocolture hanno sempre avuto un grande peso per l’economia brasiliana e di conseguenza chi gestisce queste aziende agricole ha un grandissimo potere decisionale e ha spesso influenzato la vita del Paese.

Il fronte ambientale

L’Amazzonia è la regione che ha la foresta pluviale tropicale più grande del mondo, con ben 5,5 milioni chilometri quadrati di estensione e con una biodiversità assai più ricca della maggior parte degli altri ecosistemi del globo. Al di là della bellezza intrinseca e dell’enorme varietà di animali e specie vegetali che coabita in questo ambiente, la foresta ha una vitale importanza per gli equilibri ecologici del mondo: ha un effetto benefico nella riduzione di emissioni inquinanti, nella produzione di ossigeno e nella riduzione del surriscaldamento globale legato all’anidride carbonica. Ha già affrontato in passato grossi problemi legati alla deforestazione che fortunatamente, anche grazie alla Fondazione Nazionale per gli Indigeni, era bruscamente calata.

Avendo dato la gestione di questa immensa terra al Ministero dell’Agricoltura, quindi, il rischio più grande è quello di un aumento improvviso della deforestazione – in conseguenza di ciò gli alberi verrebbero sostituiti con colture intensive, le quali farebbero respirare l’economia e non il pianeta. Questo accade già dall’altra parte del globo, in un’altra importantissima foresta pluviale, quella del Borneo, dove gli alberi lasciano spazio alle colture intensive di Palme dalle quali si ricava l’omonimo olio.

Il fronte degli indigeni

Come già sottolineato, il problema non è solo dell’ambiente ma anche delle varie minoranze che abitano in questa zona remota. In Brasile ci sono ben 462 riserve indigene, indice del particolarismo e della diversità degli abitanti di queste zone. Queste riserve occupano circa il 12% del territorio nazionale e vi abitano all’incirca 900 mila indigeni.

Bolsonaro non si è pronunciato per difendere queste popolazioni: il Presidente si è pronunciato più volte in difesa dei grandi proprietari (proponendo tra l’altro una legge che renda l’occupazione delle terre da parte dei contadini alla stregua di un attentato terroristico). Quando ha parlato di queste popolazioni è parso anzi che abbia male interpretato le loro volontà – «gli indigeni vanno integrati e non tenuti nelle riserve come animali nello zoo» –.

Questa visione di Bolsonaro, dunque, potrebbe essere interpretata come preludio al peggio ovvero come smantellamento dell’ambiente indigeno e un successivo esodo forzato nei centri abitati, per integrare controvoglia popolazioni che hanno scelto di vivere secondo le proprie tradizioni. Da notare, a riguardo, che nessun rappresentate delle minoranze indigene ha confermato le parole del Presidente né ha espresso la volontà di essere integrato nei grandi centri abitati. 

Inoltre, la Fondazione Nazionale degli Indigeni è stata messa alle dipendenze del Ministero della Famiglia e dei Diritti di Damares Alvares. Quest’ultima è fondatrice di un gruppo che ha come obiettivo l’evangelizzazione delle terre indigene e che al momento si trova sotto indagine per istigazione all’odio razziale. Insomma, più che il Brasile del 2020, sembra di raccontare le travagliate vicende del 1500, quando la terra era appena stata scoperta e i primi nuclei di europei vi si insediavano per imporre a forza la propria cultura e per sfruttare a dovere la popolazione e soprattutto il ricchissimo territorio.

Tornando alle turbolente vicende, il discorso sulla completa deforestazione e sullo smantellamento dei popoli indigeni è ancora ipotetico. Bolsonaro ha fatto marcia indietro rispetto alla campagna elettorale e sembra non voler più trascinare fuori il Brasile dagli accordi di Parigi (sebbene rivendichi l’egemonia del governo sulle decisioni in Amazzonia), ma le premesse per un disastro ci sono tutte: governo apertamente xenofobo ed esecutivo che appoggia le ragioni dei grandi coltivatori e retaggi culturali antichi.

Un insieme che mette seriamente a repentaglio non solo uno degli ecosistemi più ricchi del mondo, ma anche le poche popolazioni ancora incontaminate. L’augurio è che questa guerra combattuta con cambi di ministeri, leggi e decreti finisca a favore dell’Amazzonia, del suo popolo e del pianeta tutto.

Alessandro Leuci

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