Dal carattere schivo e riservato, Virgilio preferì il richiamo della poesia alla strada della giurisprudenza. Il suo esordio letterario fu annunciato dalla composizione delle Bucoliche (avvenuta tra il 42 e il 39 a.C), un’opera con tratti autobiografici e d’influenza storico-politica. Sono anni, infatti, burrascosi per Roma: dapprima la guerra civile tra Cesare e Pompeo (conclusasi con la battaglia di Farsalo nel 48 a.C.), seguirono poi il cesaricidio (44 a.C.) e la guerra tra gli eredi (Ottaviano, Antonio) e suoi assassini (sconfitti a Filippi nel 42 a.C.). Ma le Bucoliche non rappresentano solo un primo virtuosismo letterario: sono la concretizzazione della scelta del poeta di abbracciare un genere, la poesia pastorale, e di farlo secondo modello ellenistico per poi trarne una nuova tradizione, che avesse sede e dimora negli esoterici confini d’Arcadia (regione centrale del Peloponneso).
Le Bucoliche (dal greco bucòloi, “pastori”) sono una raccolta di 10 componimenti in esametri e traducono il tentativo di trasferire in ambito romano la poesia ellenistica d’argomento pastorale, ripercorrendo in particolare l’opera del poeta Teocrito di Siracusa (310 ca. – 250 ca. a.C. ), autore dei 30 idilli (dal greco eidýllion, letteralmente “piccolo squarcio, quadretto”), brevi e vivaci componimenti in gran parte d’ambientazione bucolica. Le Bucoliche virgiliane sono notoriamente dette anche ecloghe, precisamente “poesie scelte” dal verbo greco eklégein, per contraddistinguere uno scritto breve ma ricercato e finemente lavorato. Virgilio si introduce dunque nel filone, proponendo piccole visioni di vita contadina, di pastori a lavoro e a contatto con natura e bestiame, dei lori sospirati amori e dell’otium lontano dall’ambiente urbano dell’intellettuale di città.
Il primo elemento di forte distanza dal suo predecessore siracusano è la scelta della locazione: i nitidi tratti della campagna siciliana di Teocrito lasciano spazio ai colori tenui e sfumati, carichi di nebbia e ombre, di quella che sembra essere evidentemente la campagna italica mantovana, arricchita dalla citazione di piante tipiche del luogo (come il faggio e l’olmo) e dall’immagine del fiume Mincio. Senza mai tralasciare eventuali riferimenti geografici alla regione Arcadia che, da quel momento in poi, avrebbe rappresentato un topos nella letteratura: Virgilio, dunque, sintetizza armonicamente il vecchio col nuovo in un luogo ideale in cui pastori e contadini si ricongiungono con la natura e adorano le tipiche divinità agresti − il dio Pan, le Ninfe così come Venere e Diana.
Andava così consolidandosi il noto concetto di locus amoenus, “luogo felice e sereno“, ideale ed esoterico, in cui fuggire e rifugiarsi in totale armonia con la Natura e lontani da tensioni di ogni sorta, a cui gli stessi epicurei richiamavano con la massima «vivi nascosto» (una filosofia nota allo stesso Virgilio che aveva frequentato la scuola napoletana di Sirone ed era esperto conoscitore del De rerum natura di Lucrezio). Un topos letterario dalle antiche radici, che affonda le proprie origini nell’epica e nel mito, a cominciare dalla descrizione omerica del giardino dei Feaci che molto ricorda l’Eden, il paradisiaco giardino creato da Dio per gli uomini. Un ritornello che torna e ritorna nelle Bucoliche e nelle Metamorfosi di Ovidio: ma, se in quest’ultimo la connessione con il locus amoenus è data dalla presenza degli dei, come nei miti cosmologici di Apollo e Dafne o di Cerere e Proserpina, in Virgilio, invece, la sensazione di pace è dettata dalla pratica di una vita campestre ove i pastori evitano miseria e fatica del negotium.
I connotati di un’Arcadia ormai perduta e mitica si riconoscono anche nella fisionomia del giardino della maga Armida, descritto nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. E lo stesso Boccaccio nel Decameron, all’inizio della terza giornata, propone un bellissimo giardino, fuori dalla città, come cornice ai suoi giovani cantori scampati alla peste, un giardino che sollecita non solo la vista ma è gioia per tutti i sensi. Il fascino di un’esperienza sensoriale, che comincia dalla Natura e culmina in un animo pervaso da amore e pace, riecheggia nei versi petrarcheschi della canzone “Chiare, fresche e dolci acque” e pervade l’appassionato componimento dannunziano “La pioggia nel pineto“.
È il mito di un’Arcadia bramata e sperata, sponda d’approdo dopo tanto vagare, famigliare Itaca al termine di un lungo errare: è l’Arcadia cinquecentesca di Jacopo Sannazaro, ove il protagonista si rifugia, lasciando Napoli in seguito a una delusione amorosa, e che sarà d’esempio alle posteriori opere di De la Vega e Guarini. Un topos che acquisisce i tratti del mondo fiabesco e dell’onirico a fine del XVI secolo grazie ai capolavori The Countess of Pembroke’s Arcadia (1580) di Philip Sidney e A Midsummer Night’s Dream (1605) di William Shakespeare.
L’essenza della poesia stessa dunque necessitava di un posto in cui rifugiarsi, culla e corrispondenza d’amorosi sensi. Trovò conforto nell’idea idilliaca e mitica del locus amoenus che, per molti autori, aveva delimitato i propri confini entro i limiti della lontana Arcadia, scevra di ogni fatiscenza e male.
E da allora, anche a distanza secolare dai verdi prati bucolici, avrebbe continuato a significare ricerca e ritorno all’ancestrale, alla Natura degli antichi pastori, ad una poesia lontana dall’esagerazione barocca e ridondanti metafore. Questa la missione che aveva fatto propria l’Accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690, quando «recitando alterne rime all’ombra delle piante ed al mormorare de’ rivoli, un de’ compagni sorse enfaticamente a dire: “Pare che noi facciamo rivivere l’antica Arcadia”».
Il manifesto letterario recitava:«[…] Fingendosi pastori, immaginandosi di vivere nelle campagne, bandito ogni fasto, tolto fra loro ogni titolo di preminenza, studiando ne’ classici greci, latini, e italiani, vennero naturalmente da sé stesse a cadere quelle ampollose metafore, que’ stravolti concetti, e quello smodato lusso di erudizione, che formava la delizia non de’ poeti soltanto, ma eziandio de’ più applauditi oratori sagri, e su cui stoltamente si riponeva la sede del sublime e del bello».
Pamela Valerio