Da giovedì 26 aprile a giovedì 10 maggio sarà visibile, presso la biblioteca Sormani di Milano, la mostra fotografica personale del giornalista e fotografo, Franco Bacoccoli, dal titolo Lights in the dark, dedicata ai paesaggi urbani notturni immortalati in tutto il mondo.

Franco Bacoccoli nasce a Milano nel 1962; giornalista affermato da tempo, inizia a coltivare la sua passione per la fotografia solo pochi anni fa, rimanendo colpito dai lavori del fotografo tedesco Helmut Newton. Successivamente si avvicina a questo mondo studiando in modo sempre più sistematico i grandi della fotografia come Man Ray, Henri Cartier- Bresson, Robert Capa, Mario Giacomelli, Gianni Berengo Gardin, Bert Hardy, Elliot Erwitt, Alfred Stieglitz e Robert Mapplthorpe.

Lights in the dark è il resoconto di una raccolta di immagini di paesaggi urbani notturni, nella quale la presenza umana è assente o generalmente in secondo piano. La vera protagonista degli scatti è sicuramente la luce viva delle insegne dei negozi, dei fari delle automobili, delle case in lontananza e dei lampioni delle strade. Le fotografie di Bacoccoli sono il risultato di uno sguardo soggettivo sulla realtà, descritta non nella sua banalità, ma soffermandosi sempre su scorci e dettagli particolari. Vienna, New York, Londra, Parigi e Praga sono le città che più lo affascinano, nelle quali riesce a farsi suggestionare in modo casuale, senza aspettative e programmi, da una luce violenta, in grado di evocare solitudine, mistero e lontananza.

A seguito l’intervista a tu per tu con il giornalista Franco Bacoccoli che ha spiegato in che modo si è avvicinato a questo mondo, come è arrivato all’idea della mostra e qual è il suo rapporto con la fotografia.

Come è nata la tua passione per la fotografia, come ti sei avvicinato a questo mondo?
«Ho sempre fotografato, ma limitandomi alle foto “classiche”, quelle più o meno da turista. Da parecchio tempo sentivo però il desiderio di esprimermi maggiormente, di tirar fuori un altro lato, più notturno, intimista, sfumato, atmosferico. Parzialmente influenzato dalle musiche di Tom Waits, una sera a Brooklyn ho iniziato ad inquadrare le cose che maggiormente mi intrigavano. Luci nel buio, neon, insegne, chiarori.»

“Lights in the dark” è la tua prima mostra fotografia o ce ne sono state altre? Se sì, ci racconti qualcosa a riguardo?
«È la seconda, che arriva ad esattamente cinque anni dalla prima. La prima si chiamava quasi come questa, e cioè “Luci & chiarori nel buio”; si è tenuta presso la Casa di Vetro di Milano nell’aprile 2013. “Lights in the dark”, fino al 10 maggio alla Biblioteca Sormani sempre qui a Milano, è in un certo senso la sua continuazione ma è anche diversa. Diversa perché mi sono accorto che, col passare del tempo, cambiano le sensibilità, le inquadrature, il modo di approcciarsi ai soggetti.»

Quali sono state le tue maggiori fonti di ispirazione?
«Amo Man Ray, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Robert Mapplethorpe e altri grandi anche se il “mio genere” è decisamente diverso. Citavo prima Waits: sebbene si tratti di un musicista e non di un fotografo, mi ritrovo molto nelle sue atmosfere, specialmente in quelle di dischi come “Nighthawks at the diner”, il suo primo album live.»

Perché la scelta di utilizzare la fotografia, in quanto giornalista, come mezzo artistico per raccontare i tuoi viaggi? Ti senti quindi più giornalista o fotografo? «Per me l’istante in cui mi accorgo d’essere in presenza di una possibile buona foto è esattamente equivalente a quello in cui mi capita tra le mani una possibile buona notizia da dare il prima possibile. È eccitazione, adrenalina, appagamento. Poi è chiaro che momenti simili non capitano tutti i giorni. Anzi. Ma quando si verificano sono come una scarica elettrica.»

“Lights in the dark”: un ossimoro come titolo, cosa vuole esprimere?
«Non ci sono significati reconditi, sfumature o calembour: è un titolo autoesplicativo, non poteva essere che quello. Un titolo che inquadra proprio quello che si vede nella mostra, e cioè luci nel buio.»

Cosa ricerchi nel paesaggio e nelle luci?
«Atmosfera e ispirazione. Ma non tutte le luci nel buio vanno bene, anzi va bene solamente una piccolissima parte. Voglio che comunichino qualcosa, magari anche solo un senso di mistero. O di solitudine.»

A cosa è dovuta la scelta di fotografare città e luoghi pubblici e non volti umani? «Qualche rara presenza umana c’è, ma solo quando riesco a “rubarla”, quando non vengo visto. Non mi piacciono le foto in posa, solitamente non hanno spontaneità. Ma non voglio precludermi nulla: magari un giorno ci proverò.»

La città che ti ha rapito il cuore, se esiste, qual è stata e perché?
«Amo molto Vienna, forse perché mia nonna era viennese. Per questo genere di fotografia New York vale forse cento volte la capitale austriaca, ma nel cuore c’è Vienna.»

Il tuo rapporto con la fotografia: è un mezzo per evadere dalla quotidianità o uno strumento per venire a contatto con la realtà, usando occhi diversi?
«Bella domanda. Bella domanda alla quale non saprei rispondere. Posso solo dire che per me la fotografia è come la caccia. Non ho mai sparato ad un animale, né mai lo farei, ma suppongo sia come per un cacciatore quando si trova davanti alla preda: credo che l’eccitazione sia la stessa.»

Marta Barbera

 

Marta Barbera
Classe 1997, nata e cresciuta a Monza, ma milanese per necessità. Laureata in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, attualmente studentessa del corso magistrale in Editoria, Culture della Comunicazione e della Moda presso l'Università degli Studi di Milano. Amante delle lingue, dell'arte e della letteratura. Correre è la mia valvola di sfogo, scrivere il luogo dove trovo pace.

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