Il sipario delle proteste contro gli abusi di potere della polizia si è aperto, stavolta, negli Stati Uniti d’America. L’impeto ribelle è esploso sulla scia dell’omicidio di George Floyd, ucciso dall’agente Derek Chauvin con un ginocchio sul collo. Dopo il terremoto giustizialista che il filmato della morte di Floyd ha generato nella coscienza collettiva, è inutile rimarcare il fatto con leziose, quanto superflue parole di condoglianze. Occorre piuttosto ragionare sulle cause e gli effetti di questa vergognosa vicenda e stare attenti al labile confine tra democrazia, polizia di Stato e Stato di polizia.
Circa le cause è possibile seguire un’interpretazione storico-sociologica. Uno Stato che voglia diventare una potenza deve vestire i panni del “conquistatore” per evitare di essere conquistato. A tale scopo deve munirsi di un apparato di forze di polizia (direbbe Bakunin «più grande è uno Stato, più grandi le catene e più strette le prigioni») per reprimere i reati, e farlo alle strette dipendenze del governo. Questo a causa della necessità di “ordine sociale”, che concettualmente è una scatola vuota, riempita puntualmente dalle ideologie del politico di turno.
Gli USA sono un modello di Stato di diritto liberale: in sintesi, antepongono scopi di conservazione e organizzazione al benessere. Un fine, quest’ultimo, proprio invece dello Stato Sociale (c.d. Welfare State), quale può essere considerata l’Italia repubblicana della Costituzione del 1948. La politica penale dello Stato liberale si sviluppa sull’esistenza di un doppio livello di legalità: lo scopo di conservazione dell’ordinamento è preservato mediante politiche penali d’emergenza con mezzi repressivi ad ampio raggio che reprimono eventuali instabilità socio-politiche ricorrendo ad iter procedurali più snelli, senza intaccare l’ordinamento complessivo.
Naturalmente, l’apparato delle forze di polizia deve trovare nella legge, oltre che un’investitura, anche una disciplina limitativa del proprio potere. Negli Stati Uniti, potenza mondiale, la parvenza di solida democrazia si è scontrata e continua a scontrarsi con la violenza arbitraria ed illegittima delle forze di polizia, che non risale di certo al 25 maggio 2020 ma ha radici più profonde.
L’omicidio di Floyd è stato filmato da vari passanti ed è diventato virale. Proprio per questo motivo non ammette la prova contraria, né eventuali esimenti per gli agenti (essendo chiara anche al più ferreo negazionista la brutalità con cui hanno agito). Ma ci sono stati altri casi di omicidi di Stato ed arresti senza giustificato motivo che non hanno ricevuto la stessa, cruda eco mediatica; perciò è stata ammessa con facilità la prova contraria. Non solo nelle aule di tribunale, ma anche nell’opinione pubblica ha serpeggiato il dubbio che la vittima “se la sia cercata” e che le forze dell’ordine in quanto funzionari dello Stato abbiano sempre ragione. Animi dubbiosi quando non hanno potuto vedere con i loro occhi, ma anche sconvolti quando è stato accertato che un delitto c’è stato.
Si pensi ai vari casi italiani. Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani. La lista è lunga, come lungo è il naso di chi ha chiuso i fascicoli con surrettizie ipotesi di “morte naturale”. In tutti questi casi non c’erano video, non sappiamo quali furono le loro ultime parole per lanciare degli hashtag, non c’è stata indignazione di massa, ma tanto spazio per dubbi e insinuazioni.
Ma torniamo ai civilissimi Stati Uniti d’America, sedicenti esportatori di progresso. In alcuni di essi è ancora ammessa la pena di morte, eppure con lo stesso zelo il governo federale ha firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani. L’indotto della grande America in crisi (stavolta non economica, ma etica) ha toccato buona parte del mondo. L’effetto domino dell’omicidio di Floyd ha sollevato la “polvere nascosta sotto al tappeto” anche dell’Europa. Sotto forma del movimento Black Lives Matter, le proteste hanno infiammato le strade, all’insegna dell’anti-razzismo, dell’anti-fascismo, delle richieste di una giustizia sociale che non ha nulla in comune con la politica neoliberista, securitarista e nazionalista di Trump.
Nelle piazze si chiede una palingenesi culturale che condanni i soprusi della polizia, e non basta usare come slogan concetti costituzionali quali “uguaglianza formale e sostanziale” e “la legge è uguale per tutti” se poi la polizia può, con ostentata arroganza, ammanettare seguendo i propri andamenti emotivi o le proprie convinzioni ideologiche (peraltro penalmente perseguibili). O ancora, se quella stessa polizia può ridurre in fin di vita con un ginocchio sul collo e una mano in tasca un afroamericano, o massacrare manifestanti rei di esprimere la propria libertà di pensiero (G8 Genova). In questi ed altri casi lo sdegno composto di quanti erano preoccupati che tali fatti potessero riguardare un loro vicino parente non è mai andato oltre la dissociazione del #notinmyname e le ininfluenti esercitazioni retoriche sui social.
Gli stessi che quando la protesta popolare ha iniziato a bruciare caserme, distruggere simboli, imbrattare statue, circondare la Casa Bianca – quando cioè la coscienza popolare si è organizzata in modo mirato – non hanno risparmiato paternali borghesi e dalla poltrona di casa propria si sono arrogati il diritto di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, i teppisti dai democratici, dettando la linea come Napoleoni a Waterloo (sempre dalla poltrona di casa propria).
Già intavolare un simposio retorico su se sia giusto o meno che l’onda di protesta sia arrivata a compiere gesti poco diplomatici o, nel caso italiano, che sia o meno decoroso imbrattare la statua di Montanelli (un personaggio che non ha bisogno di presentazioni) o distruggere statue di Cristoforo Colombo, è anacronistico. Anzitutto non si tratta di distruggere o assolvere un’intera civiltà, ma di colpire simboli mirati per lanciare un messaggio sociale. Inoltre il moto rivoluzionario è istintivo, spontaneo, non richiede referendum né unanimità sociale. Come se si discutesse della distruzione della colonna Vendôme durante la Comune di Parigi per la perdita dei suoi bei bassorilievi in bronzo, invece di concentrarsi sul significato sociale del gesto, in un momento di rottura e creazione di quei nuovi mondi di gramsciana memoria.
In sintesi, le proteste in atto chiedono di ripristinare la valenza garantistica del principio di legalità, che prescrive la certezza di giustiziabilità dei soggetti che trasgrediscono la legge, a prescindere se siano privati cittadini, poliziotti o politici. La violazione di questa parità di trattamento (che trova disciplina nella legge ed è fulcro di uno Stato di diritto), nonché le discriminazioni in base al colore della pelle, all’origine etnica o sociale, alle opinioni politiche e religiose, dà luogo alla rivolta popolare per difendere lo Stato di diritto – e di diritti – contro gli abusi e le illegalità (nel caso in questione perpetrate dalla polizia).
Manifestare è giusto perché ci ricorda che la democrazia è viva e lo rammenta anche a coloro che, investiti di pubblici poteri, devono esercitarli nei limiti previsti dalla legge. Così, i veri antidemocratici sono proprio coloro che non manifestano.
Melissa Bonafiglia