Cosa pensa la Chiesa delle donne? Un ricorrente luogo comune di certa cultura è quello che vuole il Cristianesimo come un nemico mortale delle donne. Di fatto la prospettiva femminista si è imposta in maniera acritica all’opinione pubblica. L’irriducibile avversione femminista per la Chiesa cattolica ha come conseguenza anche la falsificazione della storia. Da qui la ripresa di vecchie bugie come quella secondo cui la Chiesa avrebbe per secoli e secoli considerato i maschi come gli unici detentori di anima immortale. E questo a dispetto di un’era precristiana che sarebbe stata invece luminosa quanto a diritti femminili. In seguito spazzata via dall’oscurantismo ecclesiastico.
In realtà, tutta la storiografia contemporanea ha ormai messo in crisi questa visione. Nel mondo antico, infatti, le donne facevano una vita assolutamente appartata. Nell’Atene di Pericle non solo non avevano cittadinanza ma erano sprovviste di un vero status giuridico. Erano identificate soltanto in relazione al padre e quindi esistevano solo l’ateniese e la figlia di un ateniese. Non diversamente le cose andavano a Roma dove era inammissibile che una donna parlasse in pubblico. Anche qui non erano soggetti di diritto. Questo influenzava ovviamente anche la cultura, non è un caso se delle poche poetesse latine ci siano giunti solo frammenti. E che la misoginia sia il tratto caratteristico che accomuna la letteratura greca e quella romana.
Quando le cose cominciarono a cambiare? Col Cristianesimo. Illustri storici come Peter Brown e Jacques Le Goff hanno messo in evidenza la novità rivoluzionaria della fede cristiana. Il primo, ne Il culto dei santi, ha notato che eventi come le processioni tardoantiche allentavano le tradizionali barriere sociali, comprese quelle sessuali. Le donne potevano parteciparvi perché i nuovi santuari costituivano dei luoghi di “gravità debole” rispetto ai condizionamenti familiari. Furono gli uomini di Chiesa a incoraggiare le matrone ad esercitare in prima persona un’inedita funzione pubblica nell’ambito della carità.
Anche Le Goff ha studiato con attenzione la condizione della donna nella concezione cristiana a partire dalle origini. Infatti, la presenza stessa delle discepole al seguito di Gesù segna un punto di rottura con tutta la cultura antica, compresa quella giudaica. Ne Il lungo medioevo lo storico delle Annales ha ricordato anche l’importanza del matrimonio cristiano nel processo di nobilitazione della donna. In tutte le culture del mondo antico la moglie era infatti sottoposta al ripudio unilaterale da parte maschile, ma la vera novità cristiana sta nel consenso come condizione di validità del vincolo. Il quarto Concilio Lateranense (1215) sancì definitivamente che “la donna non può essere data in matrimonio senza il suo consenso, essa deve dire sì” (Avvenire, 21/1/2007). Il principio di per sé non era ovviamente sufficiente ad impedire forzature come quelle dei matrimoni combinati, ma è significativo di una civiltà come quelle medievale la cui storia è fatta anche da regine e grandi sante come Chiara di Assisi e Caterina da Siena.
Come spesso accade, le acquisizioni storiografiche fanno però fatica a farsi strada nella coscienza comune. E questo anche per una certa visione anacronistica della storia che giudica il passato in base ad un modello astratto – e tutto moderno – di Donna. Come se il paradigma femminista fosse l’unico possibile, ovvero quello basato sull’idea che per realizzarsi le donne non abbiano altra strada che fare tutto quello che fanno gli uomini. Nonostante questo modello sia irreversibilmente entrato in crisi a causa del multiculturalismo (come relazionarsi alle donne islamiche soggette ad una cultura patriarcale che in quanto altra da noi è irrimediabilmente buona?) e non trovi certo un consenso universale nel mondo femminile.
Ettore Barra