Balli, feste, carrozze e bustini sembrano la sintesi di quella che noi conosciamo come l’età vittoriana, quel periodo storico che nel 1800 ha segnato la storia culturale inglese. Tra sfarzo, ricchezze, buone maniere, filantropia, il fervente patriottismo, quest’epoca sembra ridurre l’Inghilterra ad un evento onirico, anche se, analizzando per bene la situazione, salta subito all’occhio l’altro lato della medaglia.
Una buona parte della popolazione si allontanava dal progresso, alcuni perché lo ritenevano causa della fine di un avvento storico, altri perché intimoriti del fatto che le condizioni di vita potessero peggiorare ancora di più.
Lo strato sociale che non poteva permettersi carrozze e magnifici palazzi viveva infatti nell’ombra, nella povertà più assoluta. Charles Dickens ci raccontava la società inglese con gli occhi di piccoli orfani destinati a combattere e ad essere umiliati per un misero pezzo di pane. “I want some more” (“Ne voglio ancora”, indicando una razione di riso) è la frase pronunciata da Oliver Twist che ha messo in moto la tragica trama del romanzo. Verso la fine del secolo e con l’avvento del periodo decadente si affaccia anche Oscar Wilde, il conosciutissimo dandy che nasconde nel suo romanzo “The picture of Dorian Grey” la metafora della stessa età vittoriana: Dorian è imperfetto e immutabile, l’incarnazione del gentiluomo e di quel finto perbenismo tipico degli aristocratici del tempo, ma basta guardare il suo ritratto per scoprire l’orientamento della sua vera anima.
In una società con tanti tabù di sicuro la donna non aveva quelle libertà che oggi sembrano tanto scontate. Questo ci spiega come mai talenti come Emily Bronte utilizzavano soprannomi per firmare i proprio romanzi. Il mestiere dello scrivere era prerogativa maschile, come la maggior parte delle attività dell’epoca. Una donna poteva essere moglie e madre, l’indipendenza non rientrava nel pacchetto e quindi doveva accettare ogni cosa, anche un tradimento o una violenza da parte del marito, l’importante era che si era sposata, aveva raggiunto il suo scopo (o, almeno, quello prefissatole dalla sua famiglia).
“Cime Tempestose” è lo specchio di questa condizione sociale.
Sin dall’inizio non venne accettato dalla critica, seppur oggi viene considerato come uno dei classici della letteratura inglese, un romanzo che ha ispirato anche l’arte cinematografica. La sua struttura innovativa è stata paragonata a una serie di matriosche che, svelandosi una ad una, mostrano una realtà sempre più grigia, oscura, crudele. Dopo un inizio tortuoso in cui i critici hanno reputato addirittura che il romanzo fosse il risultato di un duro lavoro di Charlotte Bronte, “Cime Tempestose” è stato finalmente apprezzato e visto sì come un superamento di “Jane Eyre”, ma frutto della penna di Emily.
L’intera vicenda è un enorme flash back, un racconto della governante Ellen Dean (o Nelly) al signor Lockwood, il nuovo affittuario di Thrushcross Grange; il finale è invece ambientato l’anno successivo alla partenza di Mr. Lockwood.
I protagonisti di questa accuratissima analisi sociale sono Catherine e Heathcliff. La prima è la concretizzazione di quella tradizione finora descritta. Come fanciulla cerca l’amore, sognando ad occhi aperti alla realizzazione della sua favola, ma la sua idea di “e vissero tutti felici e contenti” è molto più materiale e realista rispetto alle teenagers moderne. Catherine vuole sposarsi con un buon partito in modo da aver abbastanza ricchezze da aiutare la sua famiglia e diventare una mamma chioccia dedita al focolare domestico. Forgiata sin dalla nascita con questa educazione cerca di reprimere il suo inconscio, quella parte di lei che sembra chissà perché attratta da un uomo ben diverso dallo stereotipo a cui ambisce. Heathcliff è invece il suo opposto.
Essendo la personificazione del tipico uomo privo di mezzi, non rientra in quel meccanismo vittoriano e quindi è estraneo alle vicende che tuttavia lo sommergono fino al collo! La Bronte crea così uno spioncino nel suo romanzo, una voce veritiera in quel teatrino di perfezione che la società aveva progettato. Un po’ come il Ruzante del ‘400 il povero orfano rispecchia la semplicità, i buoni valori, la sincerità. Heathcliff soffre e si strugge d’amore, rinchiuso in quel labirinto senza via di fuga che Catherine ha creato intoro a loro. Vendetta, dolore, repressione diventano i temi del romanzo. Per due generazioni c’è un continuo climax di insoddisfazione che sembra non esplodere mai per l’ostinazione, le convinzioni e la caparbietà dei personaggi in gioco. La Bronte sembra continuamente porsi la stessa domanda, la cui risposta ci è svelata solo nel finale.
I due primi amanti si sono autodistrutti, includendo anche il ricco Hindley descritto come una persona debole, senza carattere; ma solo alla fine Heathcliff smette di lottare. Il Vittorianesimo ha infettato le loro vite, le ha plagiate e ha chiuso loro la porta della felicità, ma il protagonista riesce, con una sorta di esperimento sociale manovrato dalla scrittrice, a vincere il suo gioco. Catherine è ormai morta quando la vicenda si sposta su Hareton e Cathy.
Il primo è cresciuto come in una bolla, isolato dal mondo, da ogni cosa. Non ha mai letto, mai stato plagiato da nulla, ha solo le sue idee e dei rudimentali concetti di giusto e sbagliato. Cathy al contrario è stata allevata con i guanti, tra sfarzo e capricci tipici da figlia unica. Heathcliff la strappa da quella realtà prima che sia troppo tardi, la riduce alla stregua delle donne di Dickens, la spoglia dei suoi pregiudizi e seppur con molte difficoltà riesce a farle capire in cosa risiede la felicità.
Questo gioco pirandelliano sembra quasi farci voler capire che in fondo possiamo decidere chi essere, possiamo trovare noi stessi anche se il mondo ce lo impedisce, è tutto un gioco di maschere e di ruoli, sta a noi riuscire a capire a quale vogliamo puntare nella nostra vita.
Alessia Sicuro