Siamo troppo abituati a trovare la nostra strada sbarrata con grosse lastre di legno cigolanti, a scaricare le nostre colpe agli altri, a giustificare continuamente la nostra pigrizia e la nostra superficialità. Ci proclamiamo disillusi perché troppo spesso hanno sfruttato la nostra voglia di fare, strappato via ogni parola di speranza dalla nostra bocca per poi accartocciarla e buttarla via.
Franz Kafka sapeva cosa significava questo senso di impotenza, questa sensazione di inettitudine che per la prima volta dilagava in quell’atmosfera europea otto\novecentesca, costellata da guerre e profondi dissidi interiori.
“Il processo” è un romanzo frammentario, presentato come un insieme di nervose annotazioni che testimoniano una tormentata gestazione intessuta di ricordi, insoddisfazioni, opinioni personali, ironia. Questa particolare struttura tende a destabilizzare il lettore che, solo in conclusione, capisce che in realtà l’opera non è incompiuta, ma collegata da invisibili filamenti con cui l’autore si diverte a muovere ogni sfaccettatura.
Josef K. è quindi l’incarnazione di tutti noi e, non a caso, funge da perno per l’intero romanzo.
Il Signor K è un impiegato, un uomo comune che basa la sua vita sul lavoro per tirare avanti e aver sempre assicurati i soldi per l’affitto. La sua routine subirà un forte cambiamento quando a bussare alla sua porta sono due poliziotti Franz e Willem, con un ordine di comparizione per un delitto non precisato.

 “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K, perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato” recita il celebre incipit.

Josef è sconvolto, affronta l’evento con ansia e incredulità. Inizia la sua inchiesta, cercando invano qualcuno che possa tranquillizzarlo. Si confida con la signora Grubach, la sua affittuaria, e con la signorina Bursmer, la sua vicina di camera, ma non ottiene nulla di concreto. I loro consigli appaiono ovattati, disinteressati “ Lei non deve prendersela troppo a cuore. Che cosa non capita nel mondo!” ripete la signora Grubach, mentre con la seconda Josef finisce per innamorarsene, anteponendo i sentimenti alla vita reale.
In luogo del primo processo Kafka ci dipinge uno scenario satirico, che si spinge fino all’assurdo. Il Signor K viene convocato davanti alla corte, in una sala gremita di persone. L’avvocato lo accusa violentemente ottenendo una sfuriata dall’imputato che evidenzia il malfunzionamento della burocrazia giudiziaria. Ma tutti sembrano ciechi davanti ai soprusi verbali, mentre la moglie del guardiano si trova occupata in un angolo buio in un’impegnativa attività sessuale con uno sconosciuto. Conclusa l’arringa Josef se ne ritorna a casa. La settimana dopo K. ritorna nella sala delle udienze, anche se non convocato. Non c’era nessun processo in atto, nessuno in giro, l’ambiente era deserto e spoglio. La sede in cui avrebbero deciso del suo futuro era sporca e sudicia, dava l’aria di un edificio abbandonato. La moglie dell’uscire ricompare, chiede aiuto a K, tenta di sedurlo mentre in lontananza si sentono le urla dei due poliziotti, torturati dai sicari del tribunale. Intanto la situazione si aggrava sempre di più. Lo zio Leni cerca qualche via legale per salvar suo nipote da questo labirintico processo ma invano, mentre l’avvocato difensore è l’incarnazione dell’incompetenza. L’unico che sembra possa dargli un buon consiglio è il pittore Titorelli . Egli però si rivela essere il ritrattista ufficiale del tribunale. Le notizie ottenute non sono buone: nessuno è stato mai assolto, perché nessuno è mai realmente innocente.
Kafka non da scampo a nessuno e trova occasione per puntar il suo arco anche contro la chiesa. Nel duomo di Praga K. incontra il sacerdote. Viene descritto orgoglioso, di gran presenza sul suo altare, ma invece di iniziare il sermone chiama a sé il protagonista. “Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai.” recita, come se fosse una parabola.
Alla vigilia del suo trentunesimo compleanno Josef k viene portato via dalla sua abitazione, incarcerato e condannato a morte.
C’è tanto di satirico, un’analisi minuziosa di una società che Franz Kafka non accetta. Un governo lontano, di sicari e assassini, un popolo escluso dalle vicende cardine della nostra esistenza, omertà, corruzione, lussuria. Nel suo ultimo frammento lo scrittore ci propone una novella particolare. Davanti alla legge c’è un guardiano, enorme e intimidatorio che tiene lontano un uomo di campagna. Per un po’ l’uomo ha lottato per entrare da quella porta, ma invano. Stanco, per anni e anni è rimasto lì seduto ma poi, in punto di morte, chiede “Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessuno ha mai chiesto di entrare?” e il guardiano “Nessun altro poteva entrare qui. Questo era il tuo ingresso. Ora vado a chiuderlo.”
Kafka ci ha lasciati così con una grande morale, si spera con funzione catartica. Allora come oggi i problemi politici e di conseguenza sociali ci sommergono, ci rendono burattini di una società incompleta e problematica. La soluzione sarebbe liberarci da quelle catene che ci soffocano, che sbaragliano la nostra inettitudine, che ci vestono di omertà e pigrizia. Mai abbassarsi alle dicerie, proclamarsi vittima e non lottare per i propri diritti. La soluzione sarebbe prendere in mano la propria e vita e non accontentarsi, almeno per aver l’illusione di aver fatto tutto il necessario per star bene, o almeno per andar, la sera, a letto soddisfatti.

Alessia Sicuro

Alessia Sicuro
Classe '95, ha conseguito una laurea magistrale in filologia moderna presso l'Università di Napoli Federico II. Dal 2022 è una docente di lettere e con costanza cerca di trasmettere ai suoi alunni l'amore per la conoscenza e la bellezza che solo un animo curioso può riuscire a carpire. Contestualmente, la scrittura si rivela una costante che riesce a far tenere insieme tutti i pezzi di una vita in formazione.

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