Medaglia al valore per la scuola italiana: la notizia arriva dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che, associando ai propri i dati Pisa (Programme for International Student Assessment), individua in Italia un gap conoscitivo tra alunni provenienti da famiglie economicamente agiate e alunni in condizioni meno abbienti meno esteso che in buon parte dei trentaquattro paesi membri.
Il focus dell’indagine riguarda le abilità di lettura e di calcolo degli allievi durante il percorso di istruzione secondaria, e l’Italia si aggiudica una posizione superiore alla media, dimostrando che – indipendentemente dalla condizione socio-economica dei genitori (un nucleo famigliare con almeno un genitore laureato e più di 100 libri indica il discrimine valutativo) – l’iter scolastico individua una pressoché eguale opportunità formativa.
La Repubblica informa che l’indice di sperequazione per le competenze linguistiche è di 0,45 in Italia; è vicina la Germania con 0,49, mentre il dato sale nel resto dei paesi membri.
L’inclusione scolastica, in Italia, funziona, per la gioia di un paese che deve fare i conti con istituti e materiali didattici spesso al limite della decenza. Tantissime sono le scuole, soprattutto nelle periferie urbane e nei piccoli centri, che mancano di una adeguata biblioteca e di attrezzature informatiche e multimediali, mezzi di supporto di elementare necessità.
Se dei dati Ocse si compiace la ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli, la quale dichiara, come apprendiamo sul sito del Miur, che “la scuola italiana è una scuola inclusiva, capace di supportare le studentesse e gli studenti che partono da condizioni più svantaggiate. Una scuola di cui possiamo essere orgogliosi e a cui dobbiamo ora continuare a garantire strumenti e risorse perché possa attuare sempre pienamente l’articolo 3 della nostra Costituzione”, non si può dimenticare il rovescio della medaglia.
L’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) sulle competenze degli adulti (dai 25/27 anni di età), infatti, chiarisce che, conseguito il diploma, le differenze di prestazione tra studenti abbienti e meno abbienti crescono.
La stessa ministra aggiunge che “È quindi molto importante investire anche sull’acquisizione di competenze lungo tutto l’arco della vita e aiutare le ragazze e i ragazzi, soprattutto chi è in condizione di svantaggio, ad affrontare al meglio la transizione dalla scuola agli studi successivi”. Il suddetto problema accomuna molti paesi e denuncia l’assenza di misure assistenziali per chi, non possedendo un florido sostegno familiare economico e culturale, si trovi, dopo la scuola dell’obbligo, privo di un concreto incentivo a proseguire nel percorso formativo e lavorativo. A 27 anni, infatti, in Italia l’indice di sperequazione di cui sopra si amplifica fino a giungere il livello di 0,67 in Italia, contro lo 0,61 a livello internazionale.
La mobilità sociale di cui ci si vanta apprendendo i dati Ocse, dunque, è solo apparente, perché ha un limite troppo basso. Essa si arresta a conclusione della scuola dell’obbligo, alle soglie dell’età adulta, lì dove più forte dovrebbe essere la lotta alla dispersione e l’impegno a creare una società con le medesime opportunità. Il sistema di istruzione dovrebbe essere il primo motore di riduzione delle diseguaglianze sociali, per cui i dati Ocse non possono che costituire lo sprone a rafforzare una scuola che sia capace, non solo di consentire che i ragazzi prendano i voti che meritano in base a capacità totalmente avulse dalla condizione socio-economica della loro famiglia, ma anche che – a partire dallo stesso presupposto – possano scegliere il futuro che desiderano.
Paola Guadagno